Su allori e luci
PER IL BENE DEL VENTO 🎤
FURIA DI SUCCESSI, ARRINGHE SUI TETTI
1
Entrai in contatto con la malavita al tempo dei banchi.
Studiavo economia. A presentarmi Jolly fu mio padre.
Fino ad allora, né io né la mia famiglia avevamo mai avuto a che fare con traffici sfuggenti, almeno credo.
Figurarsi, quel mediocre di mio padre. Una debolezza, un atto di resa. Chiaro che c'entrasse la questione della torre, la quale in effetti misteriosamente dopo quasi un ventennio ricevette le approvazioni comunali e fu venduta.
Internet ricordava alcuni fatti del 1982 avvenuti nel podere a due chilometri dal nostro. Diverse bombe, mitragliatori e altri armamenti trovati nel fienile. Antonio Dragone il responsabile, accusato e assolto per l’omicidio Colacino. Basta, nulla più.
Non potevo immaginare che 28 anni dopo gli accadimenti narrati su internet, nello stesso comune, ancora certi personaggi avessero una notevole influenza.
Dal canto mio, in quei giorni burrascosi, ero convinto che la vita fosse una questione molto semplice, come svegliarsi la mattina guardando il giorno sorgere.
Credevo che vivere significasse cercare qualcosa nella foschia; che la vita fosse una specie di idea seducente da scovare e da trasmettere almeno a qualcuno.
Una forma da rendere nota, ecco cos’era la vita: emancipare dalla nebbia il messaggio intravisto e raccontarlo a quanti più per darsi una ragione d’aver sentito.
A ciò credevo quando conobbi Jolly. Peccato, perché a quel tempo ero ancora smarrito nella nebbia dei giorni, e della celebre forma sapevo giusto che esistesse, ma perduta dove non ero.
Solo per questo accettai la proposta che mi fecero: aiutarli avrebbe significato un passo più in là nella foschia, e sentivo di averne bisogno.
Non c’era un’alternativa, nessun’altra chance era disposta a ballare con me; dovevo procedere o sarei morto senza svelare il mio frammento di verità.
Ritenni che quel “Va bene” potesse salvarmi, o almeno portare un twist.
Non c’entrava il rispetto per mio padre, e nemmeno la paura velata che Jolly pensava di avermi iniettato.
Accettai per le mie precise ragioni.
Poveri illusi, credevano che avessi un certo rispetto per entrambi, glielo si leggeva negli occhi. Neppure si accorgevano che li stessi usando invece per diventare uomo, e null’altro.
Avrei preso una busta, di cui mai nessuno avrebbe dovuto comunicarmi il contenuto, e l’avrei posata sotto la porta del Senatore Acunzo Nicola, fine.
Mio padre però, va ammesso, fu assistito da buona sorte.
Nel piano di fare un non so cosa, trovò suo figlio nella precisa possibilità di favorirlo.
Questo piacere gli avrebbe permesso di raggiungere un finale obiettivo in una vita di oblii.
Quale confusione fa l’esistenza nello scorgere se stessa prossima all’arrivo; fra somme mal tirate e conti forzati a venire, raggiunto l'obiettivo ci si accorge che da prendere non resti nulla.
Vendere l’onore per chiudere un affare spiacevole fu la sua scelta.
A chi importava della torre in fin dei conti? Ignoti.
Ecco perché di tre fratelli negli ultimi quindici anni nessuno era riuscito a vendere quel piccolo podere. Non doveva poi essere difficile visto che il rudere millenario sarebbe potuto crollare senza ulteriori riparazioni. Grande vergogna attende il paese colpevole di lasciar franare il proprio centro storico.
La cessione avrebbe invece salvato la famiglia da una situazione ingestibile, di odi fraterni e cugini assimilabili a sconosciuti, noncuranti l’uno dell’altro. Avrebbe anche aiutato il comune a diventare meta turistica per qualche genere di viaggiatore.
Ebbene, nonostante i clamorosi vantaggi reciproci, in un ventennio erano mancati offerenti a causa di alcune carte bloccate in chissà quale ufficio durante il loro giro finale nei saluti comunali, prima di perire in un cassetto firmate.
Ultimamente invece, per sconosciuti motivi, il comune era tornato alla carica sventolando il faldone con le pratiche.
Erano stati consultati dei registri, molti immagino, perché qualcuno si era informato circa le occupazioni di noi familiari.
In particolare, era risultata interessante la frequentazione del sottoscritto alle lezioni del Professor. Scognamiglio Pasini, in Roma.
Avevano così telefonato a mio padre per comunicargli che un archivista avesse ritrovato la pratica sepolta in una grotta.
Durante l'incontro suggerirono di chiamare il geometra Porcaro per conoscere le modifiche richieste al piano.
“Il progetto può anche andar bene” affermò il messo comunale.
“Avremmo bisogno però di un favore: che ci assicuri la successiva vendita a un buon prezzo. Per buon prezzo intendo una valutazione equa, alla quale dovrà essere aggiunta una prestazione capace di scolpire l’accordo lasciando dietro un amico fedele e non un libero mercante"
"Suo figlio dovrà consegnare al Senatore Acunzo Nicola la busta che vi daremo”
“Acunzo Nicola” pensò mio padre, prima di ricordare che frequentassi gli insegnamenti tenuti da un gentile Senatore della Repubblica. Ex Presidente addirittura.
Poteva vantare che suo figlio non fosse uno stupido idiota.
Invece ne gioì primariamente per altri motivi, e solo poi, al massimo, si rallegrò della mia eventuale intelligenza.
Fortuna volle, che avessi da poco iniziato a scrivere la tesi proprio scegliendo quell’uomo illustre come relatore.
Per questo, all’appuntamento successivo, il quale cadde nei tempi previsti, mio padre comunicò un: “Sì, possiamo aiutarvi, purché il prezzo di vendita non sia inferiore a ottocentomila”.
“Ottocentomila va bene”
Ottenne in risposta.
“In aggiunta però...”
Riprese spedito l'uomo.
“Il comune appalterà a chi dico io i lavori, perché voi ne indicherete le specifiche tra i fornitori, menzionando un già precedente accordo firmato; questo”
Aggiunse cogliendo impreparato mio padre, il quale era ahimè troppo contento di come fosse andata la trattativa sin lì. Abbandonare il campo a causa di un dettaglio avrebbe rovinato ogni traguardo sin lì raggiunto.
Replicò dunque che potesse ritenere l’accordo un fatto.
2
Jolly ed io condividevamo l’anno di nascita.
A questo pensai non appena lo vidi in campagna venuto per accordi e comandi.
"Stai tranquillo"
Esordì. A suo dire, una conoscenza risaputa, era che negli uffici del Senato non ci fossero telecamere interne. Almeno non in quelli di Palazzo “Ex Beni Spagnoli”, edificio sorto su antichi ricordi di terme neroniane-alessandrine.
"Gli Onorevoli devono sentirsi liberi per scegliere al meglio”
Le ragioni ufficiali riportate sui registri.
Non poteva essere ripresa alcuna discussione nei corridoi. Immaginate altrimenti due Senatori discutere di pellame applicato all’industria calzaturiera tardi la sera, e che qualcuno potesse da un banale chiacchierare, alludere a opacità.
Impensabile!
Così, da sempre, messi viaggiatori insospettabili e alati visitavano i palazzi per recapitare corrispondenza.
Mi stavo appena aggiungendo a questa simpatica cricca di persone: i persecutori di interessi altrui al costo di paghe considerevoli.
La porta dello spettabile Senatore Acunzo Nicola si trovava a cinque usci dalla sala in cui vegliava il mio Professore illustrissimo.
Lasciare una busta sotto la fenditura, il mio compito. “Sono alte al Senato, quindi sarà facile”, garantì. Nulla più.
“Te lo ha detto Gesù”
Avrei dovuto far redigere ai gendarmi nel momento peggiore se ne fosse venuto il caso, se mi avessero beccato. In quel modo sarebbe andato tutto bene, rassicurò Jolly.
“Nessuno ferma un angelo che porta bustarelle sotto le porte. Con cosa credi che mangino?”
Pareva una spiegazione migliore di quelle lette fino ad allora su testi noiosi proposti da scuole importanti o meno.
Sembrava giusto a quel punto se non altro verificare ciò che avevo appena ritenuto indiscutibile a causa delle sue parole.
Entrare sarebbe stato semplice, visto che il professore mi avrebbe aspettato nel suo ufficio e la portineria sarebbe stata avvisata del mio arrivo.
Avevo già testato il meccanismo la volta precedente, la prima in cui l'avevo visto al di fuori delle aule universitarie, quando avevamo discusso di possibili argomenti per una tesi accattivante.
Ero rimasto scettico pensando al colloquio durante i giorni precedenti; cosa avrebbe detto?
La domanda era stata insistente perché lo avevo ritenuto capace di sorprendere, di svelare misteri.
La sua materia non mi entusiasmava più di tanto, tuttavia, fremevo all’idea di poter parlare di nuovo con un uomo interessante.
Speravo che avrebbe accennato qualcosa di profondo, che mi avrebbe aiutato nel ricercare sagome tra la foschia.
Del primo appuntamento rammentavo i toni scuri nella stanza, la luce quasi assente, la grande sala da ricevimento. Dietro il corpo, un immenso dipinto a tematiche rurali inneggiava alla caccia, posizionato con ambizione sul muro largo.
Sotto l’immensa tela, invece, si notava lui, smilzo e sottile come la cannuccia di un succhino, lamina e spigoli, rinchiuso dentro una camicia rigata, ben serrata dai bottoni e stretta in una giacca impeccabile blu.
Era troppo scuro nella stanza per capire con nitidezza di quale colore fosse la cravatta. Si vedevano bene al contrario gli zigomi suoi, spigolosi per la magrezza, i quali suggerivano idee che il professore avrebbe preferito tenere lontane dai suoi interlocutori.
Il resto dell'incontro trascorse senza intoppi, discutendo di quelle che sarebbero dovute essere le mie ambizioni e i miei interessi rispetto alla materia che insegnava.
Ad ogni modo, l'emozione maggiore occorse a Santa Maria in Monserrato degli Spagnoli, dove erano esposti alcuni Caravaggio nell’angolo. Li avevo guardati prima di entrare, visto che gli edifici in discussione si fronteggiassero.
Dinanzi a loro avvertii un moto passionale, per vanità, e non per arte, la quale mi sfiorò appena, anche se omettere una leggera scossa ricevuta nel contemplare i capolavori sarebbe imperdonabile. Gioii di un vaneggio:
pensai che fosse necessario avere qualcosa di loro, in me, dal momento che li percepii tanto familiari. Caddi dunque in quello strano inciampo di considerare la bellezza dentro al sottoscritto, più che fuori.
"Sicuro è così"
Mi dicevo.
Quale enorme privilegio trascorrere simili giornate. Poter vivere un'altezza così insolita, girarvi attraverso per un tanto florido numero di ore...che magnifica gioia.
Il Pantheon girata la via, i Caravaggio in fronte, ed io, a non essere solo un povero turista impoverito ad ogni passo, di energie, di spinta vitale, di amore, ma un giovane che in quell’affresco era personaggio invece che intruso.
Dopo quella prima volta, trascorse forse una settimana prima che lo sentissi nuovamente. Affermò che avrei ricevuto da lui una lista di titoli su cui riflettere per argomentare un buon saggio. Ma non via posta. Chiese piuttosto di vedermi ancora, forse per orgoglio. Gli piaceva farci strisciare, sentirci perdere il fiato dietro cantilene ampollose ed eccessivamente educate quando entravamo. Lo aiutava forse a mantenere intatto il viso ostile, il quale d’orgoglio sonante necessitava nutrimento se non altro per reggere lo sforzo di quel ghigno. Il carisma costava caro.
La seconda visita sarebbe stata migliore, assai più ricca di scoop, credetti prima che il giorno in questione sorgesse.
Preso dall'entusiasmo ritenni addirittura che il privilegio di quella tesi fosse una chiara manifestazione del volere supremo. I Numi desideravano che rallegrassi il noioso, mentre oziosi sui monti dell’Olimpo cincischiavano osservando uno spettacolo capace di emozionarli.
Tutti guadagnavano dalla mia impresa, perché rallentarla?
Raccolsi la busta che dovevo consegnare e la portai con me.
Partii quel giorno con intenzioni più violente di scasso e rapina. Desideravo parlasse, che svelasse sul tavolo, sotto l’immenso quadro raffigurante caprioli, lepri, fagiani e cipolle, i segreti del vivere celati dietro quell’espressione incantevole.
L'arduo stava nel porre il quesito corretto, scovare la combinazione di parole legata al forziere, farsi gettare sul tavolo, anche fosse per stizza, la verità ultima secondo lui riguardante l’esistere.
Della busta importava poco. Foss’anche stata una fine strategia psicologica per compiere lo stabilito, in tutta onestà pensavo a come recuperare ciò che volevo.
“Non è questa la porta del Prof. Scognamiglio? Sto lasciando la tesi. Sa, ho avuto un impedimento e vorrei che la leggesse”
Tutti sapevano che il professore non aprisse allegati giunti via mail.
“Dovrò suggerire al Collega di scegliere con più accuratezza i giovani tesisti. Mi rincresce notare l’incapacità di leggere addirittura le targhette negli uffici. Spero che sia più fortunato con i suoi scritti”
Questo se avessi incontrato un intruso lungo la strada.
Fu invece ancora più semplice, visto che le quindici fossero perfette come orario in cui svolgere il piano.
Chiesi appuntamento all’ora suddetta confidando in una tacita alleanza con i moti digestivi senatoriali. Dopo un buon pranzo che non avrebbero evitato, assopiti dalla sazietà, sarebbero stati restii a muoversi dai loro tiepidi e oscuri antri proprio sul cominciare del pomeriggio.
Una simile evenienza per i loro corpi abituati alle gentilezze li avrebbe intimoriti; sarebbe stato un torto ingiustificabile se non per motivi bellici o insurrezionali. Nulla a che vedere con quelle circostanze.
Solo fortuna? Può essere. Tuttavia, nel corridoio dove mi recai, alle quindici non filava una mosca. L’ufficio in questione era appena cinque porte da quello in cui si trovava l’allora mio Professore.
Era vero. Gli spiragli inferiori delle porte in Senato erano alti, anche se diversamente rispetto a quelli in autogrill o nei saloon, piuttosto come l’estremità dei pantaloni in voga quell’anno. Ci si infilava la brezza e le buste.
Consegnai quindi il pattuito curando di vestire un guanto, grazie al quale avevo sempre maneggiato la rigida carta.
Quel compito fu ai miei occhi un nonnulla, un camminare baluginante nelle sembianze di chi si era smarrito; che poi era la mia esatta professione di allora.
Sfilatomi il soprabito da polpastrelli e posatolo nello zaino, il brontolio e la pallida intolleranza sorti per l'impazienza di svolgere il mio compito, svanirono in un cambio di posa.
Mi resi conto che neppure al da farsi ero più in grado di pensare, visto come l'agitazione mi pizzicasse ovunque guardassi. Divenni così un buco nero intellettuale nel quale il sapere trasformato in gravità rovinò ogni decollo.
“Buon pomeriggio”
L’unica sensatezza pronunciata.
Da lì in avanti cominciò un oblio di pronunce. Iniziavo bene ogni affermazione, eppure, malissimo ne concludevo ciascuna.
Persino l’anziano pensatore si stizzì.
“Ma come, ancora mi incuriosisce poi si perde? Una simile conversazione è oltraggiosa!”
Dovette pensare.
E bloccati i vaneggiamenti di un giovane in cerca del suo perché, chiuse il concerto.
“Forma è sostanza, si ricordi!”
Affermò prima di allontanarmi con chiusura perentoria, rammentando di scrivere alla segretaria per l’incontro successivo in cui avrebbe desiderato valutare una bibliografia del lavoro.
“Certo. Buona giornata”
Fronteggiai a quel punto una condizione non capitata sino ad allora: il soffrire per essere stato redarguito da un saggio.
Come bruciava l’ogni dove dentro me! Parevo un terremotato, un incendiato, un privato di tutto. Girovagavo intontito senza ricordare manco chi fossi, addirittura pieno di fiamme.
“Forma è sostanza”
Puntava il dito verso l’incompetenza per soggezione o c’era dell’altro?
“Una figuraccia di fronte all’idolo! Misero pagliaccio che non sei altro”
Pensavo alla faccenda come a una storia d’amore chiusa dal compagno per motivi non precisati e vaghi. Mi struggevo insomma.
Proprio con lui una simile magra comparsa! Scognamiglio, ex Presidente del Senato, capace di concludere lezioni portando alla commozione, e poi, il sottoscritto, inadeguato persino a completare la più semplice delle frasi.
Quell'uomo era divenuto per me oracolo, faro nel tumulto di notti eterne, in seguito alla poesia con cui aveva terminato un discorso.
Si trattava di una lezione a lui molto cara, impegnata ad evidenziare le ragioni industriali e quindi politiche del male avviluppato ai muraglioni del nostro paese.
Al suo termine, tirandone le somme, non ci volle lasciare sotto l’impressione di un futuro irrisolvibile, e per questo ricordò alcuni versi molto belli del “Giulio Cesare”, quando Bruto cercò di persuadere Cassio rispetto alla congiura, dicendo:
“Men at some times are master of their faith. The fault, dear Brutus, is not in our stars, but in ourselves, that we are underlings”
Ripetevo i versi molto spesso, quasi dovessi alla loro melodia tendere.
“Gli uomini talvolta sono padroni del proprio destino. La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi, che ad esse, ci sottomettiamo"
“E quello che noi dobbiamo fare...”
Aveva aggiunto finendo.
“E' non sottometterci alle stelle.
Per oggi ho terminato”
Abbassò lo sguardo scoperchiando il soffitto del mio pensare. Vidi il cielo.
Studiai tanto bene la sua materia da potermi concedere il lusso di una tesi con lui.
“Forma è sostanza”
Cosa farmene?
La Camorra festeggiava, gli Dei rinnovavano applausi verso lo spettacolo umano e al sottoscritto restava appena una frase indecifrabile.
Speravo che almeno mio padre vendesse al prezzo pattuito, altrimenti solo una stimabile fregatura sarebbe stata da noi tutti subita.
3
Sfiorito mio padre, eclissatosi nella corruzione, dovetti allontanare dal cuore anche il caro Professore.
Secondo le cronache di Zia Rita, infatti, si era macchiato di scandali con mia cugina.
Lo scoprii durante il pranzo organizzato poco dopo la proclamazione, quando le raccontai con chi avessi scritto la tesi.
Mia cugina si chiamava Silvia. Grande pianista, media equivalente al “perfetto” in ogni materia per tutto il periodo del liceo, università da prodigio e poi l'esordio nel mondo: i concorsi di bellezza.
Nel breve clamore di una serata tra aspiranti vallette, venne selezionata per una sfilata di gioielli in Senato.
Era il 2001, nove anni prima che io lo conoscessi, quando il caro Professore da poco terminata l’esperienza di Presidente ancora titolava un seggio.
Durante un simile evento, alcuni premurosi sottoposti informarono Silvia di come un Santo l’avesse ritenuta maestosa.
Desiderava incontrarla.
Secondo le memorie della Zia, il Professore comunicò che avrebbe potuto concederle in locazione uno splendido appartamento nel centro di Roma senza chiedere alcun affitto, se solo avesse accettato di vederlo una volta al mese.
Sempre la Zia si affrettò a puntualizzare ridendo, attraverso quel ghigno un po' da stupida e un po' da meretrice, di come la nostra splendida cugina avesse rifiutato scioccata.
Dell'intera faccenda tenni la frase.
Evitai stupide questioni di odio e risentimento.
Non potevo garantire per quanto narrato, e tantomeno mi sentivo di biasimare il Professore.
Ero forse un luminare ex Presidente del Senato? Ero nella posizione di immaginare le vertigini provate da un simile uomo?
Infine, chi garantiva che non avrei fatto di peggio? Gli ormoni perdono equilibrio durante l’anzianità, e il cervello conduce in strani sentieri; lo sapevano tutti.
Difficile quindi esprimere un giudizio. Il vociare della zia lo lasciò incolpevole ai miei occhi, anche se poi tolsi la sua foto dalla stanza dedicata agli uomini di valore incontrati vivi. Lo spazio tornò vuoto, la stanza buia e fredda, tutto un muro.
Rita quantomeno faceva ridere, persa tra l’essere una venditrice di fumo e una benestante, tra una pacchiana cinquantenne rifatta e l’interprete per eventi altolocati divenuta forse prostituta a volte.
4
I capelli emanavano una chiara lucentezza estiva. Agosto da poco aveva salutato l'anno.
Tornato dalle brevi vacanze, prima di rientrare a Roma per lasciare la stanza, passai a salutare il padre che non vedevo mai.
Il chiarore del sole avrebbe scaldato ogni viso rapidamente, se fossimo stati fuori; si capiva dal colore riflesso nei doppi vetri della sala poverella.
Questa certezza era frutto di conoscenza massima, esperienza decennale avanti e indietro per le stanze. Dentro fuori, dentro fuori, ogni giorno dell’anno. Sapevo per l'appunto intuire le temperature tramite i riflessi nei vetri, come i nodi di vento dal leggerissimo vibrare degli infissi.
Una volta concluso il breve dialogo tra un padre e un figlio che non si conoscevano ma che cercavano di rispettarsi, entrai nell’antica stanza dov’ero cresciuto.
Quale impressione il panorama! Sul serio era così allora la storia? Da quello ero stato allevato? Su quello avevo tarato le mie aspettative?
Una terribile ciminiera di riscaldamenti imperava al centro dei vetri incorniciati.
Ecco il visibile nel mezzo del parcheggio, a destra di un viale quasi autostradale.
In autunno era stata lei ad aggiungere fumo al cielo piovoso, luce dei miei risvegli.
L’acquisto di una casa con vista sullo scempio può essere considerato un crimine?
Cominciai così a dubitare che l’amore materno o qualsiasi attenzione parentale potesse sconfiggere un simile tiranno subìto davanti agli occhi.
Tentai allora di vivere una sintesi dentro un respiro.
Triste per gli studi imposti e gli inverni grigi senza fine, cercando conforto entro imprecisate visioni esterne, invece che spazio, le sofferenze di bambino prima, e di giovane poi, si erano schiantate per anni contro la violenza di una ciminiera fumante addirittura a luglio, o contro un parcheggio di auto infelici.
Compresi l'insormontabile errore paragonando tale visuale con ciò che avevo scoperto a Roma.
Il Rinascimento e il Barocco accostato al Comunismo più radicale d’Europa, quello condominiale, fece sorgere in me un certo fastidio verso la parentela, portandomi a dubitare persino dei nonni paterni.
A Zia Rita avevano comprato una villetta storica in zona prestigiosa, a Maurizio un attico elegante in palazzo ottocentesco, a mio padre un appartamento popolare in un quartiere di chiara ispirazione sovietica, la cui arteria principale portava il nome altisonante di: “Viale Lenin”.
Essendo noi, figli dell’ultimo erede non voluto ma chiamato dalla sorte, forse, i docili vecchietti avevano auspicato di limitarci per non ottenebrare i nipoti prediletti.
Tentato omicidio?
Indagini tardavano ad essere annunciate.
Le fontane di Roma ricordavano al sottoscritto dell’atroce congiura ad ogni passo. “Di Spagna” lo gridava, "Trevi" lo scolpiva nel cielo.
Il mondo era diverso da come l’avessi immaginato da casa; splendori e sofismi brillavano sotto cieli turchini.
La scoperta girava per il corpo creando sollevamenti e brezze, anche se purtroppo nell’insoddisfazione finiva tutto, perché non riuscivo ad ambire; nessun ruolo pareva adeguato.
L’esistere si era svelato per la sua capacità di raggiungere picchi ed estensioni inimmaginabili, e di fronte a quello, ebbi l’incertezza di chi fossi e a cosa puntassi.
Tanto lontano da un senso ero giunto studiando materie di Stato che mi ero perso chiedendo quale fosse il segreto della vita ad un Professore elegante, il quale, non riuscì a chiudere l'enigma, e anzi, lo spalancò.
Mi accesi un poco nel pensare a come il male alimentasse il bene, e a come le preoccupazioni più comuni fossero diventate ministeri, delle Finanze, della Sanità, della Giustizia. Non vedevo quello dei Giardini o delle Leccornie, anche se forse erano parte dell’Agricoltura.
All’interno di un pari organo pubblico mi resi complice in nefandezze.
Il prezzo pattuito, del resto, venne rispettato. Divisero i soldi in tre, non lasciando banconote al sottoscritto.
A quel tempo, consideravo il denaro nemico dei sognatori; ecco la ragione per cui mantenni il silenzio nonostante l'ingiustizia subita. Ero già molto contento di esser stato mantenuto senza domande per cinque anni, visto a maggior ragione quello che l’esperienza m’aveva portato. A me quello bastava.
Mancarono screzi. Nessuno ci tenne a incontrare guai, così la questione "busta" passò sotto silenzio.
Almeno sino al 2021, quando un nuovo morbo invase il mondo come nebbia nelle stanze, rendendo chiarezze e splendori troppo fini per spuntare attraverso la coltre spessa.
La meraviglia tornò ciminiera, da cui usciva il fumo del dubbio.
5
Finita l'università, senza eroi e senza pace, ma soprattutto senza ulteriori finanziatori, dovetti trovare una sostanza su cui poggiarmi per almeno fermare il tempo e scoprire la forma di cui volevo rendere partecipe il mondo.
Investimenti, investimenti. Di quello credevo ci fosse bisogno: un modo per accumulare denaro e poi comprare il tempo necessario per ascoltarsi, capirsi, diventare magnifici.
Desideravo essere un ricercatore di splendori, come prima cosa; progettare sconcerti, e con un pò di fortuna realizzare qualcosa di gioioso.
Grazie a un banale lavoro svolto come dipendente in una fabbrica pubblicitaria varcai la maturità con l’unica idea di dovermi innanzitutto salvare, poi si sarebbe visto.
Non certo sul denaro feci affidamento, quanto sul finanziare persone intelligenti con esso, entrando di fatto nelle loro community per svolgere mansioni grazie ai token che acquistavo, sperando in un futuro per loro da vincitori e da trafficante di rendimenti per il sottoscritto. Se volevo capire cosa portare nel mondo dovevo essere indipendente.
Scarseggiava fiducia nelle decisioni prese da Onorevoli le cui porte erano sollevate per consentire a missive di scivolare agevolmente. Ritenevo probabile che un giorno sarei dovuto fuggire al crollo scatenato dai loro errori.
Impossibile sapere che già troppi ne avessero commessi, né che tanto poco restasse prima che emergessero i guai.
Il giorno venne quando si abbatté sul mondo un virus nuovo, sotto il peso del quale ogni cosa sarebbe cambiata. Si sbagliavano sull’origine del tormento. Solo io sapevo la verità, ma non era quello il tempo di svelare il mistero.
Sarei stato nei guai se non avessi investito nelle idee più giuste, perché una volta scoperto quanto fosse letale, chi mi avrebbe pagato lo stipendio se non le reti distribuite di cui facevo parte?
La vita divenne a quel punto una sottile discesa tra bandierine come in una gara di sci. Non facile esultare premiato, arduo persino raggiungere il traguardo.
6
Quando la malattia iniziò a propagarsi risiedevo a Venezia; ancora svolgevo mansioni da impiegato pubblicitario.
Non sapevo che dopo quanto sarebbe accaduto la tal notte, i giornali avrebbero cominciato a scrivere del germe.
"Paura al bar. Si sente male una ragazza. Ricoverata in ospedale per accertamenti"
Cominciò con vaghe notizie, perché dapprincipio il morbo non uccideva. Procurava più che altro un forte dolore alle tempie, i cui effetti persistevano qualche giorno.
Ero con Giulia quella sera. Vestiva un bustino leggero e velato, trasparente a tratti.
“Ciao”
Diceva diluendo la “c” in una timida “s”, prolungando infine la "o". “Sciaooo”, suonava trasmettendo dolcezza.
Desiderava incontrare una coppia di amici per festeggiare il compleanno del loro secondogenito.
Ero vestito bene, ci tenevo a fare bella figura. Portavo una camicia di lino bianca indossata anzitempo, una giacca di camoscio, pantaloni color asfalto e un paio di scarpe nere, alte.
“Come sono già grandi...”
Affermai sicuro.
Uno affogava nella Coca Cola e l’altra vomitava in seguito all'eccessiva pizza ingerita.
“Siete organizzati bene...”
Affermai, mentre osservavo gli ambienti circostanti incuriosito dalla totale novità che rappresentavano per i miei occhi.
Nel piccolo giardino che possedevano subito fuori dal salotto era posizionato il forno torrido, basso e rovente, il quale si difendeva compatto stando nell'angolo rannicchiato, vicino allo scolo dei fabbricati circostanti, dopo le piante fiorite ed esotiche.
La sottile apertura incandescente cuoceva una pizza in fila all’altra con regolarità spaventosa.
“Max, basta, siamo pieni! Non sappiamo dove metterle. Fermati!”
Si girò Max, un signore grasso con la faccia a pera e pochi capelli. Alto però, molto ben piazzato, concentrato nella gestione del forno sistemato in giardino.
Portai dentro le ultime, al tonno, prima che sigillasse l’arnese esclamando:
“Finito!”
Il disordine non rendeva gli ambienti più familiari, anche perché il mobilio in dotazione era del genere adeguato ovunque seppur incantevole mai.
“Ascolta Max...”
Chiesi a un certo punto perché mi stavo annoiando.
“Tu fatturi a margine 45 o 30%?”
“Sotto il 40 si cambia lavoro”
Rilanciò come un giocatore appena sceso in campo.
“Ah, Casinò...”
“Sì, i casinò marginano 45%-35%, se non sei nel range è meglio smettere”
Del resto, un po' di contrattazioni su Bitcoin, poi alleggeriva i guadagni comprando oro, e infine usciva. Riscuoteva da una banca lituana e prelevava in Italia. C'era una cassa cooperativa a Mestre presso cui si recava il mercoledì tra le 4 e le 5 per ritirare in contanti, trenta, quaranta, cinquantamila euro.
A quell’ora un cassiere diverso proponeva magie.
Parlava dei soldi con vanto, come se non avesse altro da mostrare.
Successo era legato a ricchezza, per lui, e scarne risultavano le frasi elargite in discussioni lontane da quel mondo.
Considerò il mio coinvolgimento nelle cryptovalute sufficiente a ritenermi di famiglia, uno a cui poter parlare senza remore.
Sapeva il fatto suo, perché non si sbagliava.
Il metodo da lui utilizzato purtroppo però era lontano dei miei desideri. Quale miracolo sarebbe stato trovare senza appuntamenti una soluzione già testata per salvarmi.
Non ritenni tuttavia adeguato un prestanome lituano.
Ero molto più incline invece, a ricevere contanti incontrando persone fidate in luoghi sicuri.
“E se volessi fare così?”
“Chiamami. Se ho voglia ti spiego”
Ero sazio. Avrei avuto un complice per rendermi indipendente dal pachiderma che si accasciava.
“Quale fortuna” sussurrai all’orecchio della nobile Giulia.
“Te l’avevo detto, Andrea conosce gente importante. È il commercialista di chi non dorme”
“Hai fatto bene a portarmi”
La baciai.
Restavano molte fette di pizza sistemate ovunque nella casa, sorrette ciascuna da un piattino, circolare, candido. Erano capolavori o inutili resti?
“Chi vuole il gelato di Max?”
“IOO”
Rispondemmo in coro.
Quel fresco sceso per la faringe servì a calmare il capo ancor più delle membra.
Quanti nobili gusti esistevano. Una volta nella confezione scartata a casa, ogni sapore era buono. Non esisteva un gelato cattivo.
Persino la menta non pareva uno scempio se abbinata con proporzione.
“Hei schiava, è pulita la cucina?”
Scappò al marito sul finire della cena.
Elena guardò la platea di amici rispondendo in sua difesa:
“Scherza”
Restammo zitti. Io per forza di cose, ma loro perché?
Nessuno fiatò.
Non mi stupii a quel punto del muso tenuto l'intera serata dall'amica di Giulia.
Forse era l’ora di andare.
Uscendo cominciai a contare i passi mancanti prima di poterla stringere.
“Un drink ti va?”
E io pensai:
“Ma come un drink?”
Tuttavia non potei che seguirla nel bar.
“Gentile senatrice del circolo vela, mi ricordo di quella volta agli Alberoni, o sbaglio?”
“Ah sì, devo essermi sbagliato. La vuole sapere una cosa davvero piccante?”
“Allora, la vuole sentire...?”
“Dove stai andando?” Iniziò Giulia visto che mi stessero rapendo.
“Allora, il piccante?”
Chiese la ragazza con la quale dialogavo per la frenesia di non poter agire.
“Nulla, niente di piccante, sono spiacente”
Risposi girando lo sguardo con fare discreto prima di allontanarmi.
Ritornai.
Contavo i passi e le curve, anche i respiri.
“Ah, gentile cerbiatto, lei è un frutteto pronto a sbocciare”
Esclamai a Giulia infilando una mano nello spazio tra il suo braccio e il torace mentre camminava.
“Pensavo che fosse un’amica di Emilio incontrata anni fa. Mi sbagliavo”
Avvertivo una certa delusione nel cuore, perché in lei qualunque entusiasmo mancava. Beveva camminando non su piedi ma su leggere punte, quasi non si sentiva; sgusciava tra luci di lampioni volando.
Ritardava il momento in cui nudi si sarebbero incontrati i nostri corpi.
Desiderio tanto bramato, immaginavo, per il quale avrei svaligiato un castello, sconfitto lancette di orologi e addolcito umori.
Giulia, tesa, mora, dai muscoli lunghi e stretti, sodi e sottili, in fuga da una vecchia storia di paese, invece indugiava.
Era stata il volto, e non solo quello, di una scandalosa raccolta punti tenutasi a Polcenigo nel 2015.
Forse il fotografo vedendola si era preso un colpo.
Scatti insoliti, non sconci, solo non comuni, capaci di far sorgere strani pensieri a chiunque sfogliasse le pagine della brochure.
Come mai foto tanto poetiche in una raccolta punti del supermercato? Era lei ad essersi voluta mostrare in una precoce vanità di attrice, oppure si era incrinato un chip nella mente del fotografo cinquantenne?
Dove può sognare malizia, la fantasia sceglie di stare. Pensare a ragazzine impudiche aiutava gli anziani a colorirsi in viso e faceva il sangue girare più rapido.
Ne parlarono tanto.
"Un toccasana per il cuore!" Conclusero i medici.
“Sarà un buon segno o un cattivo presagio?”
Sussurrarono i più sulle panchine.
Il medesimo chiacchiericcio, quando diffuso su svariate bocche all’unisono, non tardava a diventare comportamento; una smorfia, un sorriso, un colpetto di gomiti. Molto le fu precluso, perché ogni vezzo d’amore era considerato dal paese una conferma d'impudicizia.
Il trasferimento universitario a Treviso servì, per liberare il flato e sguinzagliare il cuore.
“Non riusciamo a vederci abbastanza”
Sostenne.
“Un vicino”
Affermò. Tutto lì.
Lo comunicò a bruciapelo quella sera, tornati, prima di riprendere un bus.
“Presentarmi Max è stato il regalo d’addio?”
Sorrise.
“Hai bisogno di lui, non di me... Fai il bravo”
E se ne andò.
7
Accesi un poco di musica funky e girai da fumare.
C’erano tanti obiettivi da raggiungere, era meglio così: non vederla più. Mi ero forse venduto il senno per un paio di baguette?
Aspiravo a raggiungere il titolo di “maestro del vivere”, non si poteva abbassare la guardia. Era un buon momento per leggere e sottolineare le frasi nei libri speciali, almeno visto che solo da quelli io mi sentissi attratto dopo le delusioni subite per mano altrui.
Stava tra l'altro arrivando il tempo della frutta matura, e avventurarsi nel mondo in anticipo non conveniva; era meglio studiare per stupire.
Ero casto e congelato aspettando l’inizio dell’estate, compresso nelle ultime coperte, costretto a lavorare dagli organi interni per non farli inceppare.
Nel tempo che restava mi lasciavo inebriare da sinfoniche parole che mi guidavano alla scoperta di me stesso e della mia vocazione.
Avrei fatto così così e così. Era tutto chiaro nella mia testa. Allora per mettermi avanti invitai il Cavallo a riservare i treni. Ad Agosto saremmo andati a Napoli da Emilio, e il ritorno non sarebbe stato un obbligo.
8
Dopo i primi casi legati a una ragazza, visto che non si diffuse e non parve mortale, del virus si smise di parlare.
Così partii tranquillo, senza temere ricoveri.
“Trattare bene le cose aiuta a farle durare”
Ero stato costretto a ricordargli una volta giunti all'ombra del Vesuvio.
Il dolce Cavallo era mio amico da tempo recente. Trascorrevamo insieme le vacanze per ragioni che si chiariranno con il procedere della storia.
Trovandolo dopo mesi di mancati contatti, lo notai tuttavia avvizzito, sprecato in usanze che definirei "tribali".
Quali noie avevano occupato i suoi giorni per averlo reso un uomo dall'intelletto affaticato?
Lo ricordavo ottimo alleato in splendori linguistici. Invece, si era presentato retrocesso a ragazzino di provincia, abituato a proverbi miseri in sintassi.
Aveva scordato che senza grammatica non si rende immortale un verso?
I fraseggi a cui si era adattato, ricchi di sincopi, tocchi e contatti di avambracci, si perdevano in un ristretto numero di parole ripetute.
La cultura a cui si riferiva era quella stradale, dai poveri mezzi per elevarsi.
San Francesco lo aveva addirittura fatto meglio. Sorella Luna e Fratello Sole. “Brother Sun” and “Sister Moon”, anche se preferivo “Brother Flower” and “Sister Moon”. Si trattava di un livello superiore. Invece i generali dell’Hip-hop da cui traeva ispirazione erano soliti chiamarsi “Brother” o “Sister”, senza sole, fiori o luna; uno scempio della fantasia.
Si era dimenticato di ricchezze e allori?
Ritenevo che la penuria lessicale andasse combattuta per non sprofondare in un feudalesimo espressivo, preambolo di ciò che chiude i capitoli nei libri di storia, il fiore amaro dell’uomo, il genio del male, portatore di obbrobri e dolori.
Vivere in periodi di generale declino come quello in cui scrivevamo le nostre storie richiedeva massimo sfavillio dialettico.
Solo così avremmo contrastato l'inarrestabile franare della sorte: con rime e fraseggi sognanti.
Morte e sconfitta erano solo modi di parlare, nulla più.
Quando vinci, gridi, racconti e canti, nella sconfitta invece, pavimento e quiete sono al massimo interrotti da richiami di colazione.
Il semplice parlare, le smunte frasi, colpevoli di non ricordare un fischio riguardo agli insegnamenti impartiti, conducevano a grigiori e tristezze, a intendere la vita come un rigurgito solo per via delle cattive parole registrate in memoria.
Servivano fontane rigogliose e iconiche, fatte di linguaggio, frasi serene e coccolanti, compagne dell’azzurro cielo, il soffio del nulla, il grande burattinaio di ombre e luci, supremo maestro di rime virenti, immense, portatrici di novità e incanti.
Come ballavano i giorni se conditi di gran poesia! Salivano, si allargavano in un twist, e, a seguire: palmizi, delfini, venti e cavalli, Sultani e Regine, visti anche solo invocando lo splendore, parlando.
Tutto, diventava la vita, se descritta da pensieri maestosi.
Invece, l'amico, non ricordava manco di aggiungere dopo il termine “fratello” un che.
Fratello Lago, o Tramonto, perché non Fratello Cascata?
Il Nobile generale degli schieramenti pronti si era fatto trovare con un fischio d’uva in mano. Girava senza pace, giovane illuso, ignorante in costruzioni di notevole pregio. Diciamo costruttore di botteghe, arrangiatore di panche. Il progettista di verande si stava mostrando umile sotto il cielo d’estate.
Era il funambolico Cavallo, giunto da Verona con il treno delle 5, rimasto in gabbia l’intero giorno. Aperte le vetture, calci e saltelli erano stati il minimo da attendersi. Assistevo al cavallino irrequieto, che di tanta energia non faceva un passo.
“Tratta bene ciò che desideri al tuo fianco”
Cercai di essere chiaro. Non poteva pretendere l’attenzione di una ragazza in quel sudicio modo; mai nella storia era stato sufficiente piazzarsi dinnanzi a una giovane per sedurla, esclamando:
“Sono demolito”
Calcava persino l’inizio del vocabolo, rendendolo:
“DDEmolito”
Che orribile suono! Credo che nella sua mente fosse un modo per farsi riconoscere come ciò che avrebbe desiderato essere: un uomo vissuto, un gangstar, o qualcosa del genere.
Restava del resto fermo, braccia conserte, attendendosi una fioritura negli occhi o nel sorriso di lei. Rimaneva invece con un fischio tra le dita visto che la piazza intorno brulicava di vita ed era sufficiente girarsi per dare inizio a un nuovo capitolo della notte. “Demolito” non era un tentativo abbastanza audace per convincerla a interrompere il resto.
Stava fermo con la canottiera bianca, stretta, il fisico curato e la posa che avrebbe dovuto nascondere una delusione. La sua pelle lattea nel frattempo risaltava chiarissima in una piazza di studenti, commercianti affaticati e vacanzieri perdi tempo. I capelli color tronchi di betulla, legati dietro, e gli occhi azzurri, risaltavano puliti nella piazza del sud.
Era uno scoppio di luce e un niente di splendore. Anche così agghindato infatti, gli studenti, i commercianti stanchi e i vacanzieri perdi tempo venivano preferiti al suo lugubre intervenire maldestro.
“Gentile avvocatessa, la consulta vi fa perdere tempo?”
Chiesi alla bionda ragazza disposta vicino alla macchina parcheggiata. Quali occhi famelici e rispettosi mostrava!
“Le chiedevo se la consulta vi facesse perdere tempo...”
“Ah non è del ramo? Peccato, cercavo proprio una gentile avvocatessa... Si occupa invece di import/export?”
Rise e confessò il proprio nome. Così le presentai il caro Cavallo aggiungendo tanto di lusinghe, sperando che avesse capito come si intratteneva una ragazza, ovvero mostrando una fantasiosa curiosità nei suoi confronti.
“Non mi dica che a Pozzuoli ci sia sempre il sole...”
E li lasciai. Cercavo più di un sorriso e quattro chiacchiere.
Mi ero forse illuso riguardo a Napoli?
Avevo inteso da un paio di ragionamenti e scorci, che avesse per me qualcosa. Non capivo.
Pareva al contrario che stesse crollando, che fosse mollata su correnti fameliche capaci di farla sprofondare.
Ero inciampato alla fiera di paese? Avevo preso una cantonata?
Non potevo tuttavia indugiare tra scherzi di ragazzini. Dovevo capire in poco tempo se fosse lei la città giusta per i miei intenti.
Salutai così gli studenti, i commercianti stanchi e i vacanzieri perdi tempo. Dedicai un pensiero alla ragazza di Pozzuoli che gettava sorrisi, prima di abbandonare la piazzetta gremita di cuori.
Il tallone quasi accarezzava i sampietrini scuri per via della suola troppo lisa, mentre dai buchi frontali, nelle scarpe, respirava un coccodrillo a filo di corrente.
Passeggiavo allarmato temendo che l’intero piano fosse stato una sciocchezza. La città aveva nulla oltre bassifondi irrequieti, placati da droghe leggere e alcol scontato, anziani storpi o senza dimora, tutti belli a fare i mercatini di cianfrusaglie sui muretti.
Che razza di idee guidavano un simile avvilimento delle forze?
Poi capii, e tutto iniziò a fiorire: la disperazione.
Fui silenzioso e circospetto un attimo; uno spartito mi ero trovato fra le mani.
Era un popolo di avviliti.
La fiamma nasceva in loro su scintilla d'abbattimento.
Eccoci a ballare! Erano sudditi di servi, questa l’origine dell’afflizione! Mai regnanti a casa loro.
Un popolo in affitto a cui era proibito comprare.
Chi non risulterebbe tale?
Anzi, come non fosse una strage di suicidi faticavo a capire. Figli di genitori sudditi, di padri venduti o persi nelle mani di un altro Re lontano.
Eppure, a tutto c’era risposta.
Resistevano in quanto complici, il povero del ricco, il ricco del povero.
Crocevia di un tessuto senza obiettivi, resistevano per il gusto di vedersi ancora.
Così lo capii, perché la fatica richiesta dalle strade già stancava.
Era facile affievolirsi lungo il percorso, sentire il bisogno di mangiare qualcosa, bere un sorso e guardare le bellezze circostanti per non essere tristi della faticaccia solo per un caffè.
Attenuare la stanchezza richiedeva denaro in tasca, pagarsi un qui e un lì, un su e un là.
“Quanti spicci servono per estinguere una debolezza? Dai diversi ai molti”
Pensai.
“Un simile numero rischierebbe di appesantire le tasche: ulteriore fatica per sfaccendati già coperti di sudore”
Poteva significare un ritardo per crampi.
Perché non chiederli dunque? Così divenne usanza.
Ai faticanti era concesso non portare denari. Ricevettero appunto licenza di chiedere, ai passanti per lo più, i quali sapendolo, tenevano con sé monete da elargire aiutando i lavoratori di fatiche. Essi avrebbero recuperato l’avanzo quando, una volta chiesti servigi a uomini comuni, contrattando il prezzo avrebbero tenuto i favori nei calcoli.
Ecco il piacere di rivedersi! Poter chiedere il denaro prestato udendo in risposta scuse cucite da maestri.
Infatti, quali voci avevano! Al sol cogliere il loro primo verso si era certi delle proprie origini rurali, poiché anche il venditore di meloni era un fine cantante.
La strada necessitava di poeti, se non altro per resistere in quel sistema di menti. L'andirivieni era un susseguirsi di risposte fiabesche ad ogni sciocchezza o richiesta; un gran piacere per l'udito.
“Inferiorità dialettica! Il motivo dell’impasse governativa ad ogni tempo su Napoli”
Sentenziai nel pensiero.
Impossibile assoggettare un popolo superiore in dialettica alle proprie ragioni.
“Che bello!” riflettei.
Chiunque, solo parlando, mostrava una meraviglia.
Incantavano udito e vista, no?
Mancando biglietterie per tutte le rappresentazioni cittadine, gli artisti si arrangiavano come potevano.
Non mettevano mani ai portafogli, erano piuttosto divenuti abili nel farsi consegnare quanto riuscivano grazie a scherzi e battute.
Una forma di abilità incredibile. C'erano uomini in grado di ottenere regali per nessun motivo senza suscitare pena o disgusto; erano geni.
Le strade brulicavano di portenti, i quali, pigri, si limitavano ad eseguire magie.
“Anche oggi ho preso la confezione di sale grosso, sono salito in centro e ho benedetto e incantato”
Recitava alle cene tra amici uno di loro, immaginavo.
Uomini santificavano i passanti e lanciavano sale per giorni, cantando e ridendo.
Volteggiavano in una festa tutta loro, a cui eri subito invitato, vestito e pettinato. Un pasticcino, un caffè ed eri preso dentro, già rispondevi al giornalaio insolente. Non era vero che il Corriere costasse di più per via di un guasto alla macchina di stampa.
“Ma per piacere, caro giornalaio. Ci sono cresciuto nelle tipografie, glielo so dire aspirando la fragranza esalata dai fogli se la macchina sia in procinto di rompersi. Questo inchiostro sa di perfettamente revisionato. Forse era la settimana scorsa il guasto. Lessi sull’ Avanti di Amalfi qualcosa al riguardo, ma era solo per un picco momentaneo nelle quotazioni, pochi giorni la settimana scorsa”
“Ah sì, ha ragione Commendatore Onorevole...Ora ricordo”
Che onestà quando si anticipava il possibile scherzo.
Cos'era questa diceria sui prezzi fissi? La volevano finire?
Ognuno pagava ciò che meritava.
Non era sempre così nella vita?
Mica tenori e ballerini potevano sperperare come avvocati o mantenuti. Più cercavi l’incredibile e meno pagavi, più sembravi un garantito benestante e più contribuivi al dinamismo generale.
Era uno stratagemma pulito, assai meglio delle tasse, adatto a supportare gli audaci.
Tutti lo capivano, e una volta entrati fremevano per giocare non restando un istante nel vecchio modo di essere, e anzi, subito chiedevano sconti.
I vantaggi non erano però elargiti in base ad urla e gesticolii. Seguivano piuttosto il numero di sorrisi procurati o persi.
Accedere al sistema era facile. Bastava prendere o dare qualcosa.
Non rifiutando vista, udito o gusto, già i napoletani avevano dispensato. Era a quel punto corretto che cercassero in te di risolvere un affanno.
Il gioco cominciava così, accettando di vedere un capolavoro per strada, ascoltando una discussione ferroviaria con piacere.
A farsi restituire ci avrebbe pensato il destino.
9
Era necessario che raccontassi tutto al fischiatore di boe, al generale maldestro.
Desideravo che non si perdesse in meandri tribali. Necessitavo di un complice saettante, quello che sarebbe stato senza cortina di placca e tartaro.
Prenotai quindi una seduta per l’igiene dentale appena disponibile la notte stessa.
“O gentile paziente”
Esclamò il bianco dentista vedendolo entrare.
“Si sieda per cortesia e apra la bocca”
Eseguì quanto richiesto senza fiatare. L’igienista così introdusse nell’armoniosa apertura un paio di pinzette e ne estrasse una parola rimasta fra i denti.
“Dovrebbe usare il filo interdentale, altrimenti gli avanzi residui marciscono...Tra varie patologie questo comporta alitosi”
“Lei mastica la parola “demolito” in eccesso. Non può continuare a cucinare sassi porgedoli agli invitati”
Il Cavallo iniziò così a intuire come notificarsi “demolito” equivalesse a specificarsi poltiglia, un cumulo di macerie, un palazzo crollato.
Appena nel gruppo rurale dichiararsi distrutto portava onore, in quanto unico obiettivo di luoghi noiosi era di annientarsi per non assistere al magro spettacolo di sé medesimi.
Tuttavia, in una piazza di anime mondane, o se non altro abituate a mercanteggiare, servivano ragioni concrete per stimare qualcuno. In aggiunta, lì, i termini utilizzati prendevano significato dalle enciclopedie dei vicoli o da pagine di rinomate leggende, non da convinzioni di minorenni volgari.
Usare il linguaggio delle rotonde in una piazza di “gloriae conquisitor”, ricercatori di vittorie, pagava male.
Servì una seduta odontoiatrica affinché vagamente capisse.
“Perfetto”
Esclamai strattonandolo fuori dall’ambulatorio.
Restava da condividere al più presto quanto intravvisto, così che, nell’alleanza fra due menti, avremmo potuto raggiungere maggiori conclusioni capaci di suscitare meraviglia.
Però, spostandoci, fui interrotto purtroppo negli intenti che avevo da due con i quali ci eravamo poco prima scorti e di sfuggita intrattenuti per un paio di ragazze folgoranti da noi tutti osservate. Vedendomi, sorrisero, e non erano stati i primi.
Erano forse esterrefatti gli individui con il sottoscritto dialoganti?
Quali le ragioni per cui sorridevano? Avevo forse sbagliato a chiamarli con il nome di: “Care Diocesi”?
Risultavo emozionato. Pensavo di aver suscitato trasporto in chi addirittura parlava una lingua superiore.
Il loro discorrere, dei napoletani come popolo intendo, era assai svelto e sinuoso, uno scendere fluviale di parole freschissime. Non erano soliti confabulare con marmi o forme architettoniche precise, fiori d’acanto e foglie d’abaco nei capitelli. Facevano per questa ragione un gesto poco usuale all’udirmi: alzavano gli occhi.
Adagiati nella saputa cantilena, di solito restavano convinti che potessero ignorare l'oratore in aspetto. Il fine era di non perdere la concentrazione smarrendosi nelle iridi altrui, e ragionare meglio, comporre frasi calibrate con precisione verso l’obiettivo.
Invece, al sentire un così insolito verbo, compivano rarità: alzavano i vispi sguardi cercandomi.
“No, adesso me lo dici...Siamo qui insieme e me lo devi spiegare, perché sei andato via di punto in bianco...?”
“Sono venuto per capire se Napoli vada bene. Non posso cincischiare con vacanzieri eccitati”
Fu sorpreso di quanto esclamai. Considerava il danzare prossimo a montagne di spazzatura con una ragazzina francese, stretti sulle ginocchia, l’apice del possibile. Era così esaltato che le ascelle della piccola lucertola fossero state persino incolte, rigogliose di pelo biondo, e in più, che la voce sua fosse potente e spropositata rispetto a quel corpicino da ranocchia.
“Puoi trovare la stessa cosa ovunque, addirittura senza immondizia”
Insinuai.
“Tu invece cosa hai visto?”
Rispose in tono di sfida. Passare per minorato lo irritava alquanto, almeno desiderava che comprovassi le affermazioni profuse.
Mostrai così come dietro poche vie ci fossero alcuni anziani addormentati su miseri sgabelli, mentre vigilavano certe bancarelle attraverso cui guadagnavano la vita durante il giorno.
“I Napoletani sono disperati... Nessun altro accetterebbe vite analoghe senza andarsene o lottare”
Mi sentivo persino adirato. Cercare risposte a Napoli... dove si discorreva a testa bassa senza lottare per il giusto assoluto, perdendosi invece difendendo ciascuno il punto di vista proprio, il quale se dava l’impressione di raggiungere il massimo, portava inefficienza e povertà complessiva.
“Capii solo dopo”, dissi, che fossero invece giunti al culmine della saggezza.
Il grattacapo della povertà illusoriamente debellato con guerre in antichità e nel recente passato con espansione economica, lì, si affrontava con diversa eleganza.
Non pensavano a sviluppo e conquista, non consideravano possibile che la soluzione risiedesse nello scambio con il resto del mondo. Napoli era il mondo, e fuori Napoli mancava un "che" di utile a loro, perché qualunque esotica trovata non parlava la lingua partenopea, non s'incastrava con le forme del vuoto regnante nei loro cuori. A Napoli serviva Napoli, null'altro. Napoli era il dramma umano consumato nel modo più sincero possibile.
Era questo a fondare la disperazione: essere ancor più che vinti, incompresi.
A tale condizione solo i folli risponderebbero “presente”, e invece proprio su questo avevano costruito i festeggiamenti.
Sopravvivere alla disfatta rendeva indispensabili scintille così frequenti da nascondere la batosta complessiva.
Risiedeva ciò in una costante contrattazione, un prendere e un dare senza fine, un accordarsi e un ridere.
Il caffè chiesto al doppio, non per inganno, ma perché tanto delizioso che il cliente si era offerto di pagare due volte, o così aveva capito il cassiere battendo lo scontrino.
In questo vortice pareva che la sconfitta avesse generato una vittoria.
Era una costruzione elegante, di certo.
Lo stupore era il segreto di Napoli; le parole, magiche bacchette.
“Ah, non mi ha detto: “pago doppio, era troppo buono?” Devo aver capito male”
Il cliente ridendo poteva anche replicare:
“In effetti era molto buono, tenga pure il resto”
Un gaio ringraziamento lo investiva poi, percepito di valore superiore alla spesa appena sostenuta.
Piccole vittorie ottenute stupendo, minimi insegnamenti qualora le parti si fossero invertite; ecco vivere le strade, ecco offuscare la disperazione.
Popolo insolito, quindi solo; scarso in numero per difendersi contro regni enormi di persone comuni, costretto per questo motivo a sopportare ingerenze.
Discordare nei modi: ecco la sua colpa.
Restare incompreso e dominato alimentava così la giostra.
Cercai di suggerire questo al Cavallo, mostrando gli anziani disposti ogni pochi metri, dormienti nelle forme lasciate da basamenti condominiali o su sgabelli e sdrai.
“Il culmine di questa città è lo struggimento”
Affermai illuminato dalla ragionevolezza.
“...Nonostante lo spettacolo, la sconfitta non ha termine... Lo vedi come è scenografica la tragedia? Evidente e abbellita da finezze parlanti il verbo sentimentale, non di senso logico...”
La foto di Padre Pio stretta nella mano del vecchio rubava un fiato.
Suscitava cordoglio e furore, voglia di proteggerlo, di scrutarlo vivere per come sapeva, perché continuando così avrebbe portato regali a tutti.
“Non lo senti?”
“Cosa?”
“Ahhhhh...l’ironia! Unita alla disperazione crea la spuma, il bicarbonato con l’acqua”
Ancora stava zitto. Non capivo perché tacesse ma sentivo l'impeto di proseguire.
“C'è l’ironia a salvarli. Quando lo stupore si accorge di non poter rivaleggiare la disperazione in tenacia, si strugge prima di ergersi nel dileggio soave.
È uno studio di rattoppi questa città, mai di soluzioni.
Sapendo in conclusione che anche il sarcasmo abbia termine mentre la dominazione mai, si godono il presente a cui sempre riescono a porre rimedio con una battuta.
Per questo dell’attimo ogni napoletano è soprattutto innamorato. Capisci?”
Udendo queste parole, il Cavallo mi diede l'impressione, seppure vaga, di svegliarsi.
“Se da un lato rubano in piccole o grandi maniere, dall'altro si risarciscono con umanità. È un mondo raro questo, funziona inversamente al nostro. Non potevo stare a cincischiare con il corpo viaggiatori stranieri... Capisci?”
“Non mi sembra così interessante la storia della disperazione...”
Mi ero sbagliato, e con l'errore, saliva l’irrequietezza. Avvertivo il rischio di essere partito con un uomo regredito a genere rurale impiegatizio. Sarei rientrato, pensai. Come potevo aspettarmi di vincere il male in quelle condizioni?
Avrei cambiato il treno e sarei tornato seduta stante, forse già all’alba stessa. Ero furibondo.
10
Eppure, Napoli già vinceva.
In quell’istante d’incomprensione mi ero trovato nell’angoscia di sentirmi solo, come lo erano tutti vicino a me, fagocitati da un mondo straniero di barbari.
Eravamo ormai la stessa cosa, una festa di disperati, io, Napoli e il mondo alla deriva.
Ritenni così fondamentale investigare le soluzioni da loro escogitate per sopravvivere ad una simile condizione. A tal proposito mi sovvenne in capo alcuni secondi dopo una frase.
“Come la marea che non accetta un arretramento”
Credetti che un’intuizione m'avesse colpito. Si trattava di una fotografia relativa al contemporaneo da noi vissuto.
Scoprire il piacere derivante dal non lavorare aveva sgretolato ogni ideologia e organizzazione.
Durante il bene giunto negli anni passati, ovvero nel periodo in cui il paese e il continente erano cresciuti fortemente, diciamo per tutto il dopoguerra fino agli anni 80-90, povere orde di sfruttati avevano cominciato a lamentarsi.
“Condizioni migliori!”
“O spacchiamo tutto”
Almeno in parte erano stati concessi allentamenti e regali per tenere buona la forza lavoro.
Nessuno tuttavia garantiva lunga vita ai decenni fortunati.
Quando essi si nascondevano, restavano le garanzie da mantenere.
Gli imperi così crollavano, Occidente incluso.
Al dominatore mancava denaro per salvare le usanze seppur amate di Napoli.
Quando accadeva, gli stomaci si stringevano di una tacca e si accelerava la corsa del prendi e dai.
In simili condizioni ognuno risultava un ammasso di coriandoli stropicciati che muovendosi perdeva scie e arraffava code altrui nel tentativo di perdurare. Tutti erano disposti a passare di mano in mano, era il carnevale umano perenne, e noi non facevamo eccezione.
Fu il caso, infatti, come spesso occorre, a ricucire gli strappi dove ingegno falliva.
Recuperammo un coriandolo appartenuto a chissà chi in un negozio di piazza Dante.
Una suadente musica giungeva dall'uscio spalancato all’ora pomeridiana. Luce color di limone e musica zuccherina ci rischiaravano.
Fuori nello spazio dinnanzi all’entrata, in cui erano mostrati espositori metallici contenenti piccoli elettrodomestici usati, come radio, frullatori, tosta pane di anni passati, si trovava in aggiunta una minuta collezione di vinili acquistabili per 2-3 euro ciascuno.
Fui colpito nel vedere come il primo ritraesse un cavallo nero imbizzarrito e un vulcano imperante su una copertina scolorita dallo sfondo verde.
Titolava: “Furia Di Successi”, e includeva tracce promettenti:
-
My name is potato
-
Dove sei cagnolino?
-
Furia soldato
“Estroso sagrestano”
Lo esortai ad ascoltarmi.
“Quel magnifico disco ritrae un cavallo e si intitola: “Furia di successi”"
"Ecco cosa dovrebbe dire: “Io sono Pietro Furia di successi”, non: “sono Pietro il demolito”"
Capì così all’improvviso ogni cosa, gli si sgomberò il cielo davanti agli occhi.
Rise! Era il solletico del ravvedimento che avrebbe completato il lavoro iniziato dall'odontoiatra.
“Io insomma, andavo dalle ragazze dicendo: “Ciao, sono Pietro il cumulo di macerie? Sono Pietro il rottame? Un obbrobrio urbanistico espropriato e reso cenere?”
Proseguì poi nel ridere sfrenato, pervaso dalla chiarezza finalmente uscitagli in capo.
“Ti rendi conto di quanto sia ad effetto presentarsi come: “Pietro furia di successi”? Susciterai ogni volta ammirazione e stima. Chi negherà un saluto e un pensiero d’amore a “Pietro furia di successi”?
Rimase stupefatto; nome migliore mancava da sempre sul globo.
“Io sono Pietro Furia di successi”
“A “Demolito” sostituisci ...”
Fece una prova.
“Questa sera sono u ... sono un ... una Furia di successi!”
E giù a ridere come squilibrati, entrambi. Risultava in effetti la risposta a tutto.
Se tristi e senza speranze si sostituiva ai termini negativi “Furia di successi”, tutto risorgeva.
Anche in punto di morte immaginai.
“Ho poco da vivere...” sarebbe diventato “Poco sarò ancora una furia di successi”. E subito di morale ottimo avrei incantato sebbene prossimo a trasalire.
Mancava il minimo dubbio. Celebrarsi un tumulto di vittorie rendeva simpatici e impartiva una direzione chiara al trascorrere del tempo.
Se “Furia di successi” era lì, certi screzi non sarebbero accaduti, perché tutti avrebbero compreso e rispettato lo spirito del maestro.
“E' intelligente chiamarsi come vorresti che fosse la vita, si evitano incomprensioni”
Ad esempio, "Furia di successi” non potrebbe mai uscire con “Gestioni modulari”.
Se Pietro furia di successi incontrasse Clara gestioni modulari in un bar, poco importerebbe il suo aspetto così delizioso, perché di gestioni modulari la furia di successi non ne potrebbe di certo sopportare.
Quello era lo spirito del ricco parlare: consentire d'intendere un numero maggiore di elementi nonostante la confusione del futuro imprevedibile, solo fiatando.
“Ingegnere banchina di ponte”
Sentii dire. Il parsimonioso generale desiderava entrare in un supermercato alla ricerca di cibarie rapide e sostanziose.
Ne uscimmo vincitori in sella a dei sorrisi.
Rincasammo quindi con un melone in mano, dei succhini rinfrescanti e un disco di successi.
11
Fu in quei giorni che tornarono a parlare della malattia. Alcuni nuovi casi, quella volta più gravi, erano stati registrati in città. I titoli si fecero seri, anche se le persone ad agitarsi ci pensavano poco. Era estate, i più avevano orecchie solo per le risate e occhi per il mare.
Io ero tra quelli. Mi godevo la vita e assaporavo le mutevoli sorprese di una stagione fantastica.
La sera in questione, ad esempio, mi persi osservando un coleottero che si era smarrito e che volava attirato dal bagliore di un lampione operoso.
Incontrai la sua immagine alzando lo sguardo dalla piazza.
Intorno al corpo nero si confondeva un alone grigio generato dalle sue ali frenetiche, contrapposto al giallo acceso della luce.
Tendeva le zampe verso il bulbo illuminato, disegnando un tentato abbraccio di molti rami. Costituiva un attimo di naturalezza scolpito tra il rigurgito dei cliché umani.
Da periferie e angoli si riunivano in quel luogo i giovani sognando l’amore, il grande dubbio capace di risolvere ogni domanda.
Quel genere di salvezza bramavano, scalmanati il giovedì sera.
Il coleottero spaventato non sapeva decidersi. L’ipotesi “atterraggio” lo smaltava di angoscia. Pieno e teso, rifletteva su di noi i dubbi universali.
Causavamo danni e dolori, il creato temeva l’oblio standoci appresso.
“Fuggo”, era ovvio che gridasse.
Ogni bene desideravamo acciuffare, romperlo e goderne.
Come dicevo prima al Cavallo: “Resta quello di cui ti prendi cura”.
Il resto altrimenti si offende e parte in cerca di apprezzamento. Si resta soli.
Eravamo abbandonati dal mondo. Ci puntavamo gli occhi in faccia l’un l’altro, e se non era un viso si trattava di uno schermo. La vita fuggiva lontana, tant’è che un povero coleottero sembrasse chissà cosa, tra noi disabituati a contemplare esseri non umani, o non retroilluminati.
Gli autobus intanto prelevavano i giovani da quartieri dormitorio in cui vedevano solo muri, spigoli, cielo, panchine, e li parcheggiavano in una piazza nei pressi di un obelisco, il quale presentava in cima una donna vestita con tessuti gonfiati dall’aria, la quale era sorretta da angeli accorpati in nuvole ed era ornata da una corona di stelle. Da lì scendevano rivoli tanto armoniosi che ricordavano il velluto, protetti da aquile sontuose, stemmi e riccioli candidi.
L'obelisco era tenuto in piedi sulla schiena di quattro profeti incappucciati, intenti a impartire saperi di sacre bibbie.
Ancor sotto vi era un ulteriore basamento, altare circolare, apice di un marmo, non diverso dal razzo nella sua parte inferiore ricca di propulsori. Il piedistallo includeva tali mostri meccanici, spenti e camuffati, incappucciati da un telo vorticoso, ghiaccio di pietra.
Il coleottero, il coleottero intimorito.
Non vedeva i capolavori di roccia, non sentiva lo scoppiettare del motore acceso nell’autobus venuto sin dalla periferia? Esseri capaci di costruire simili prodigi amministravano svariati saperi, come non fidarsi di chi può conoscere?
Non odiavamo i coleotteri. Se avesse domandato, nessuno avrebbe dichiarato auspici malevoli.
Eppure, come fosse sceso, qualcuno lo avrebbe ucciso pur avendo dichiarato il suo favore, magari intimorito dal ronzio delle sue ali, o spaventato dalla sua ombra.
I credo erano secondari rispetto alle incombenti circostanze.
Il coleottero sapeva che l’uomo non ragioni spesso e a lungo; era certo del giusto. Prima quindi di schiantarsi nella luce, precipitando poi sul pattume, ebbe un finale sussulto e virò su una foglia appesa.
Fu salvo.
Vociava il popolo in un tumulto di alito caldo. Qualcuno ballava piegato sulle ginocchia saltellando snodato, mentre i gay si esibivano uscendo in volto dalle mani alzate come suore la domenica a pranzo.
Questi ultimi camminavano per strada vestiti benissimo, con gli ombelichi al vento, orecchini grandi o piccoli, sguardi seducenti, pronti e sicuri. La libertà con cui gli omosessuali si esprimevano in città era indice di quanto il luogo fosse ideale. Lì erano divini, belli, abbronzati, sani, magri e succinti. Pareva inoltre che vivessero l'intera metropoli come una personale mostra entro cui risplendere. Ovunque i gay sono belli, si vive bene e il terreno porta buoni frutti.
Restava un solo quesito.
Com’era possibile un infinito rovinarsi senza uno schianto? Cosa tratteneva Napoli dalla bara?
Le strade infatti erano piene, oltre che di magici attori, di fisici gonfi e zoppi, gente dimenticata. A questi cedevano spesso le gambe, una più stretta, monca, mentre l'altra s'affaticava nel resistere. Oppure le tibie gli si sporcavano di macchie scure, a forza di rimanere nei vicoli zozzi. Uomini maculati popolavano il dovunque, depressi, con pancioni sferici, seduti sul ciglio di grandi vasi urbani colmi di fioriture selvatiche.
Erano frequenti tra i reietti anche uomini abbronzati con visi dalle buone proporzioni, saturi di malizia.
Stupiva immaginare donne al tempo, floride in speranze, a braccetto di quei ceffi.
Un perenne degrado senza uno schianto era difficile da concepire.
Forse qualcuno guadagnava lo stesso.
Era quindi un profitto inestinguibile a tenere lo spettacolo in piedi per il bavero?
Prezzi maggiorati o distribuzioni inferiori portavano, nei periodi complessi, fatiche crescenti ma non morti e crolli. In compenso, meno avevano e più si attaccavano alla vita con romanticismo. Dove scarseggiava denaro, contava lo spirito.
Il timbro di fabbrica risultava esente da possibili sottrazioni. Non avevano altro. Il sorriso poteva sparire cavato a forza, ma il genio no. Sarebbero stati Napoletani per l’eternità.
Quello importava: avere un che di inespropriabile su cui contare.
Tifo e bandierine, cori contro il destino, l’avversario di sempre; di quello era piena la città.
Ognuno era nel posto in cui voleva essere, difendeva la professione e ne mostrava i vantaggi.
Dunque, qualcuno guadagnava sempre sulle sventure della gente.
Il ricco, desiderava che non perisse chi lo rendeva tale, e allo stesso tempo cercava il costo più contenuto possibile per la faccenda.
Più sono le caratteristiche appetibili ai ricchi di cui la popolazione è dotata, più soldi vengono attirati nel luogo, perché sono maggiori gli interessi che possono scorgere sviluppi in una così vasta ricchezza di talenti.
Andando via calando invece i motivi per cui un popolo servisse florido e carico d’abbondanza, ovvero diminuendo il numero di interessi esaudibili attraverso l’impiego delle competenze popolari, più cresceva la voglia di andarsene con denaro e ori.
Ciò implicava impoverimento complessivo, il quale se non interrotto avrebbe comportato schiavitù.
Qualora più nulla di rilevante oltre la pura vita fosse stato in grado di risultare utile ai dominatori, essi avrebbero cominciato a servirsi non delle loro abilità, ma dei loro corpi, come risarcimento per la sopravvivenza concessa senza cavarci nulla altrimenti.
Con sorpresa, notai che più si acuisse la sofferenza, più da uomini si trasformavano in napoletani.
Nel punto minimo, tolto ogni guadagno per chiunque, sarebbero divenuti la città stessa, recuperandola, perché nessun altro se non loro avrebbe intravvisto vantaggio nel gestirli vivi.
Puntavano a quel risultato: sfiancare i dominatori con pazienza. Se il nemico è sazio, affamalo, se unito, dividilo...
Il dominatore ricco lo si fiacca portando un affastellarsi di spese; abbandonerà qualora il bilancio sarà malato.
Dileguatosi ogni possibile investitore, avrebbero comprato per quattro spicci la loro città dopo secoli.
A tal fine sopportavano il perenne declino; per quello Napoli era così: non c'era altra via per liberarsi.
Forse tanti avevano dimenticato, ma l’antico e sottile piano non vi era dubbio che fosse quello.
Soldati in mimetica per le vie, non derelitti villani, ecco cos'erano.
12
Confessai al Cavallo di avere poca fiducia in Emilio.
Sarà stata la volta in cui attesi il suo arrivo un’ora a Rialto, o quando cercò di non pagare la stanza che aveva preso per qualche mese in affitto.
Pensando a lui, un pò sentivo paura.
Si trattava di un colibrì, il suo comportamento lo ricordava. Faticavo a capirlo. Infatti, la sua vicinanza risultava un'eterna tensione e un continuo mistero. Tutto poteva succedere, e anzi, si presentava, se lui era nei dintorni.
Non capitava ad esempio di rado che svanisse per farsi notare poi tra gruppi di voluttuose ragazze, le quali nel frattempo manco avevano capito come lo avessero conosciuto.
Era sempre con il becco ricoperto di pollini. Grande incognita il come facesse, ma certo era che fra una risata e una battuta, nel giro di poco tutte fossero innamorate di lui.
Era abile, sì, perché di bellezza vi posso garantire che non ne fosse stracolmo quanto di genio. Di quello ne era a tal punto sazio, al contrario, da essere considerato affidabile solo la notte, perché fuori dal dubbio era tra camerini e interviste a sperperare un patrimonio di fantasie. Lo cercavano tutti per un sorriso o un passo di danza.
“Dov’è Emilio?”
“A ricamare un pizzo”
Rispondevo senza indugi a chi domandasse.
Tra tutte le avventure però, proprio quella vissuta con il sottoscritto teneva impressa.
Chiunque l'avesse osservato, avrebbe notato sette splendidi punti di sutura al gomito per un’inflessibile scheggia di vetro che gli si era infilata nell’articolazione.
Era capitato anni addietro, a Venezia, durante una festa organizzata in casa del sottoscritto.
Emilio stava saltellando gaio di piaceri e buona musica, ebbro di femminili parole, quando abbassando il gomito in seguito a un’esultanza, non si accorse del calice poggiato sul tavolo e se l'infilò tra i tendini e le vene, procurando un dilagare di sangue, spruzzi e schizzi.
Che brutta scena! Non potevo quasi finire il pensiero. Tanto avevo sbagliato nel porgere stupefacenti, che iniziò una carneficina sotto le stelle di casa mia.
“Legati questo”
Avevo cercato di spiegare a Emilio.
“Ma no, sto bene, vado a casa. Alle 6 attacco”
“Sei pazzo, ti si vede l’osso. Stringi il nodo, andiamo in ospedale”
Ma lui insistette dicendo che sarebbe tornato a casa per una doccia, visto che il turno delle colazioni sarebbe iniziato alle 6 puntuali.
Al che lo avevo guardato severo esclamando che sarebbe rimasto.
Poi non ricordo quanto dopo, o forse mentre cercavo di persuadere Emilio, ma Camille, una cara ospite, vedendo schizzi e macchie di sangue, ebbe un attimo di mancamento e crollò sul pavimento svenuta. Dopo averle dato un cucchiaino di zucchero e averla sorretta mentre cercava di alzarsi, volle cercare il bagno per rinfrescarsi il viso. Le chiesi di attendere un istante mentre raccoglievo alcuni vetri che lasciati a terra avrebbero potuto fare altri danni, ma lei non si fermò, continuando con passo malfermo a dirigersi verso il bagno, noncurante delle schegge sparse. Purtroppo non feci in tempo a raggiungerla, che in bagno trovò altri schizzi e svenne di nuovo, battendo in quel caso la testa contro il gradino della doccia.
Quando la trovai, un pò di schiuma le usciva della bocca, e il corpo le si era stranamente irrigidito.
Mi sentii gelare. La vita spensierata era finita così, nel bagno di casa dopo una festa, davanti a una ragazza paralizzata.
Ricordai che nei film, quando qualcuno sveniva, alzavano le gambe verso l'altro. Così, senza molte speranze, lo feci, notando che aveva bagnato la gonna con dell'urina. Presi un pò d'acqua tra il panico che montava nei respiri, e gliela gettai in faccia. Niente. Lo rifeci, ancora niente, finché alla terza volta, forse per miracolo, ma riaprì gli occhi. Rinvenne.
“Rio terrà secondo numero ...”
Avevo ripetuto lungamente.
“Dietro San Giacomo Dell’Orio...”
L’ambulanza tuttavia non trovava il palazzo.
“Santa Croce o San Polo?”
“Non lo so...”
Rispondevo turbato al telefono.
Infine, coincidenza volle che un barcaiolo di passaggio, notando sagome fasciate e sanguinanti in calle, caricò tutti portandoci in ospedale senza fare domande.
Ogni momento della vita era bello se vissuto in barca a Venezia una notte di primavera.
Da un rio secondario entrammo nel Canal Grande senza preavviso.
Il telo era così stato alzato dalla meraviglia con gesto inatteso, repentino, dileguandosi nell’aria lasciando un: “oh” infantile nei cuori.
Lo spettacolo della notte riposava calato su costruzioni antiche, caritatevoli in bellezza anche se irte d’indifferenza per il nostro destino. Le scarse luci, gli urli dei gabbiani lontani, l’umido fresco della tarda notte, le stelle in cielo, e noi, appollaiati a prua su una barca da trasporto avvolti in coperte e bendaggi di fortuna... Sembrava la scena di un film pronto ad avere successo.
7 punti a Emilio, 2 a Camille. Nessun morto, nessun paralizzato, zero amputazioni.
“Com’è andata?”
“Un trionfo”
Avrei risposto.
Emilio mi portava con sé. Non pensasse che io ne fossi esentato.
Ecco perché sentivo paura al solo pensiero di lui. Eppure, capitava che lo scrutassi come ricordo.
“Ok, scrivo al mio amico”
Avevo deciso una volta posati i bagagli a Napoli. La città era grande, e noi, soli, saremmo stati persi.
“Sarà invecchiato e calmo?”
Domandai tra me e me visto che quattro anni fossero trascorsi.
Temevo che non sarebbe mai giunto all’appuntamento, o con ritardi colossali.
Tuttavia, scarseggiavano le alternative: il piccolo loft che avevamo affittato non garantiva agio per via delle minute dimensioni, e in aggiunta, il palazzo fatiscente risultava un covo di misteri nel quale conveniva restare il meno possibile.
“A Posillipo non ci siamo mai andati, no”
Risposi assicurandomi che il Cavallo accennasse conferma.
“Davanti al Museo Nazionale fra un quarto d’ora?”
“Va bene, siamo vicini”
“Vi faccio divertire”
Concluse.
13
La vecchia macchina sobbalzò sgangherata salendo la via costiera.
“Che ricca la collina! Quanto splendore i palazzi”
La città era un calzino caduto sul golfo, chiaro e ben steso.
“Lo sapete com’è nata Napoli?”
“No”
Rispondemmo a turno.
“Non conoscete la storia di Icaro?”
“Non parla di Napoli...”
“Dai, la congiura delle piume...”
Ci guardammo: “No”. Non la conoscevamo.
“La prima volta in cui il passato cercò di uccidere il futuro”
Esordì.
E cominciò a raccontare di come in Grecia, per anni, nell'antichità, il sole scelse di ardere senza freni.
“Si lascia andare”
Pensò qualcuno. Una prova di forza, un risveglio mattutino di particolare vigore. Per i greci, un frizzante risveglio del sole comportava anni asciutti, infausti.
Tant'è che l’intera penisola rischiò di essiccarsi, e solo la costa rimase come possibile rifugio. Così si cominciò a vivere di pesca, portando la società a trasformarsi: i nobili, abituati a possedere terre coltivate da schiavi, persero ogni privilegio, perché da quelle ormai non germogliava più nulla.
Furono i giovani a muoversi per primi; e solo dopo aver costruito nuovi avamposti chiamarono gli anziani offrendo riparo; ad una condizione però: che fossero loro ad amministrare i nuovi insediamenti, e che ogni titolo arcaico, in quei luoghi, fosse sospeso.
Così, non in splendori di allori, ma tra reti e bave da pesca, i potenti cambiarono nome e una società nuova iniziò.
"Serve una svolta!"
Cominciarono però a lamentare i visi canuti dopo aver raggiunto gli altri.
“E' doveroso tornare alle nostre terre. Non vi mancano le feste di Bacco, riposare sotto un fico o vedere il grano ingiallire? Pensate al futuro, quando la pioggia riapparirà e in casa vostra troverete uno straniero. Il nostro divenuto loro, regalato per abbandono del campo. Chi allora potrà domandare nuovamente agli Dei chiarimenti sul domani? Invocare un miracolo, richiedere grazie?
Non piacciono le meretrici mortali ai voli supremi. Riprendere per tornare, uno sforzo e ricominceremo a salire”
Tutti desideravano alzarsi e poi volare, celebrare gli avi e sognare.
Per farlo, gli oracoli sostennero che sarebbe stato necessario il più grande sacrificio mai compiuto; solo così avrebbero ristabilito l’equilibrio tra il Dio e gli uomini.
Per l'occasione furono consultati molti Sacerdoti, ciascuno esperto in rituali dalle origini che si perdevano nel tempo. Dopo lunghe preghiere, interpretazioni e discussioni, tutti giunsero alle medesima conclusione.
I giovani sarebbero dovuti partire volando verso il sole; e una volta giunti, avrebbero spiegato cantando come il suo agire li rovinasse. Se solo avesse potuto girarsi un attimo, affievolire la torcia, quale favore avrebbe offerto all’umanità. Tenesse pure ogni bene da loro portato, purché concedesse una tregua.
Qualcuno non fu d'accordo, ma la religiosità era così profonda che nessuno osò contraddire il verdetto.
Si alzarono così insieme, da una parte all’altra lungo un territorio esteso fino all’impensabile, tanto, che oscurarono ogni luce creando un'ombra piena che si protrasse per due giorni, fin quando non uscirono dal cielo raggiungendo il divino.
I rimasti: donne, bambini e vecchi, pregarono giorno e notte di poterli scorgere tornare, afflitti da un timore profondo: senza rendite né figli sarebbe stato difficile per loro superare un’altra estate.
Poi il mare non aveva teatro, e a loro tanto mancava potersi riunire, parlare di spirito e materia, amore e guerra, liuti e generali.
Chi reggendo una statua sulla schiena, chi portando vasi e piumaggi, alcuni vino, e perché no pesce, così da ricordare che appena quello mangiassero una volta finiti gli uccelli usati per fabbricare i profili appositi al volo, erano partiti.
Compromessi come popolo, i giovani volarono per discutere con il sole, fargli sapere quanto e come lo stimassero, tra canti e volteggi.
Avrebbero lasciato i doni e in silenzio sarebbero tornati se non interrogati dal Dio.
Il Sole però, indisposto, ritenne un sopruso che portassero cibi, statue e manufatti volando su piume.
Avevano sterminato vite per comunicargli di avere caldo?
Nessuno invece era giunto per chiedere clemenza verso uccelli o altre specie.
“Perché io preferirei voi?”
Chiese.
Ma risposta mancò.
Impossibile trovare una replica non offensiva, visto che insoddisfatti del creato lo stessero manipolando in qualsiasi modo pur di arrecarsi piacere.
Era forse sbagliato considerare quei comportamenti come un’accusa verso le capacità divine?
Il sole udì milioni di piume, sorrette da intrecci di rami, assemblati con cera e un poco di funi, agitarsi per raggiungerlo.
Avvampò così, infastidito, ed emanò uno sbuffo.
“Io lavoro per tutti, non per voi e la vostra insignificante penisola”
Parve comunicare lo schiocco lucente.
A chi non perì bruciato, si sciolsero le colle e perdendo le piume cominciò a precipitare.
Una cascata di corpi da altezza solare avrebbe visto un osservatore. La geometria ancora non quantificava il dislivello. Era una misura avvertita come sentimento: obbedienza al maggiore, rispetto e segreto terrore.
Non si presentarono dunque al suolo interi i loro corpi. Già aperti e smontati dal soffio bollente, o rotti per l’urto con legni e altri resti, precipitarono coriandoli.
Uno soltanto riuscì a tenere sembianze mortali fin qui. Precipitò bruciando con l’offerta ancora tra le mani.
Portava limoni.
Icaro, il suo nome.
Entrò nel suolo lassù, dentro la montagna oltre il golfo; il Vesuvio.
Con l’impatto perse i doni, i quali rotolando sul pendio guadagnarono una velocità sì vigorosa da giungere, i più arditi, a ridosso di spiagge e scogliere.
Lui, invece, infilatosi bruciante a terra, portò calore fino al nocciolo, procurando un tal movimento da far risalire e zampillare il magma, riempiendo golfo e litorale di futuro terreno fertile.
Dal buon suolo spunta un gran discorrere. Infatti, subito, i giovani oppressi, gli schiavi e i servi delle vicine colonie, lì si trasferirono creando Neapolis, Nea Polis, Città nuova.
Icaro fondò Napoli. Un giovane venduto dai parenti seguito da molti ragazzi mossi dal sogno.
Crearono così un luogo estroso e magnifico, tanto che venne ritenuto dai Re, ideale come luogo in cui vivere.
Non Capitale, guai portare grane al mare. Luogo d’amore e diletti invece sì, scambi e costruzioni celebrative del vivere grandioso.
La medaglia più ambita!
“Ho Napoli”
“Un vezzo per loro e un gran piacere. Ma per noi? Per noi no. Una puttana dalla "mona" stretta, che nessun Re potè chiavare, ecco Napoli. Ma neppure libera di uscire mai fu, dopo lo sfolgorio iniziale”
“Essere decisi fa la differenza. Napoli è una città convinta. Mi piace”
Recitò il Cavallo.
“Che belli i limoni di Icaro”
Pensavo io. Limoni ellenici trapiantati su lande e dirupi magmatici.
I giovani crearono un modello, un esempio di vita perfetto, il quale gli fu rubato prima che venissero giudicati loro stessi ladri per il modo in cui si comportavano con i dispotici padroni stranieri.
Recuperare un torto, difficile da condannare come intento una volta compreso.
Ero con loro in quel viaggio saltellando su strade costiere lastricate di pietre antiche.
Andavamo a sognare?
Ci attendevano scintille?
Fremevo peché la risposta fosse un “sì”.
“Icaro, il nostro tentativo non è un sopruso, ma un twist, stiamo cercando di crescere e diventare grandi”
Avrebbe risposto e sarebbe stato contento?
Di noi suadenti tra le curve, ebbri di volontà abbaglianti, desiderosi di tuffarci, sentire capo e fisico avvolti nel singhiozzo fresco, nelle acque del golfo blu.
14
Pietro Furia di Successi doveva valicare uno spiazzo.
Solo così avrebbe recuperato la maglietta che aveva lanciato sul tavolo appena arrivati.
Eravamo sul tetto di un palazzo storico nel centro, in cui abitavano alcuni amici di Emilio. Dal parapetto in muratura spuntava la cupola argentata di una piccola chiesa.
Non pensavamo né agli amori, né ai nemici.
Il Cavallo pareva una statua: floscio sulla sedia pieghevole si stagliava lindo nel mondo. Emergeva dal pavimento catramato con nitidezza, e i suoi muscoli erano disegnati da sottilissime ombre.
Trasognava fissando il cielo mentre le braccia abbandonate all’in giù cercavano svogliate di toccare terra.
Ogni arto, incustodito, gli si srotolava nelle angolature suggerite dal piacere. Occhiali da sole e fronte galleggiante nel mare del riposo facevano intravvedere sul corpo i successi che l’uomo andava cercando.
I tatuaggi simmetrici lungo le braccia, la scritta nel petto e la “A” di anarchia sulla coscia sinistra appena sotto le mutande scure lo rendevano bello.
Bianco contro il nero del catrame essiccato, era sorretto da una sedia marrone e sovrastato da un cartellone pubblicitario turchese in cui la felicità cercava di vendersi grazie a un colore steso sull’infinito.
Falso pareva il cielo per quanto impeccabile e immacolato fosse.
Poco più in là invece c’ero io, stupito, nella tinozza azzurra in cui si affondavano i piedi prima di entrare nella piscina gonfiabile.
Impossibile terminare la sequenza di gesti però.
Immerso nell’acqua fresca appena cambiata, optai per attendere un attimo. Stendendomi nello spazio maggiore avrei sentito il freddo assalire l’intero corpo; lì no.
Tepore e gelo, luce e riflessi, una danza di sensazioni domava ogni pulsione.
Come sottofondo, intanto, procedeva una musica techno coinvolgente.
Stavo ballando. Danze in bacinella, il rave nel catino.
Portava a titoli incredibili quella situazione. Informai allora Furia di Successi circa la mia condizione errante all’interno di una vaschetta.
Cominciammo a ridere.
La mia vita era finita nel tinozzo e desideravo che non ne uscisse più.
Come potevo essere certo che avesse una scadenza tanto ravvicinata quella condizione? I ragionamenti suggerivano che fosse scontato. Impossibile vivere in bacinella danzando musica techno troppo a lungo.
E perché?
Sembrava, invece, aver vinto nella mia realtà come momento quello. Lo avrei elevato a massimo dubbio e suprema convinzione. Si poteva condurre un’esistenza di tinozza, sul tetto, di fianco a una piscina gonfiabile grassa e lucente, azzurra e pronta, dall’acqua appena versata quindi gelida?
Volsi lo sguardo in direzione del Cavallo, vinto dal sonno e poi dal riso.
Furia di successi era solo un contrasto, la nemesi del catrame.
Svolgeva il suo ruolo con rilassatezza, lo riteneva adeguato.
Impossibile vivere in tinozza dunque. Se tutti ne erano certi perché indugiare?
Uscendo, i piedi liberarono un suono di scrosci e guizzi durato qualche istante; poi, sciolti dall’involucro fresco, tornarono sul nero catrame bollente.
Le pizze erano finite, e le birre quasi. Ne restava giusto una mezza vuota ciucciata da chissà chi.
Dov’erano gli altri? Sicuri che lasciare bacinella e piscina tanto a lungo fosse un'idea convincente?
Che sciocchezza rinunciare a un simile beneficio, credetti.
Tornai quindi sui miei passi, rapido persino, e godetti ancora un poco dei piaceri contemplati in una vita di tinozza.
Sopraffina oltre ogni possibile smentita, l'esperienza riprese a scorrere suadente mentre ballavo nel sogno.
"No.…”
“No... Pino, che fai? Stai alla larga"
Il cane, spuntato da chissà dove, cercava di agguantare la sua medesima coda avvicinandosi minaccioso. Piroette, una, due, poi agitò la cadente lingua osservando rintontito lo spazio della terrazza in cerca d'occupazione.
La pallina rossa? Una semplice passeggiata tra le pozzanghere lasciate da quanto sfuggito alla piscina? Oppure un tentativo di entrare dov’era proibito? Cosa avrebbe fatto?
"No, Pino, Vattene!"
Difficile però convincere un cane lupo bacato in testa.
"Non fatelo entrare, ha certe unghie..." si erano raccomandati.
Cercai dunque, perso nella confusione mentale, di non violare i decreti e salvare l'integrità del luogo.
Bastarono solo pochi secondi in realtà, perché spuntarono subito gli altri nel tentativo di persuadere l’animale fuggito dal salotto.
Erano preoccupati che fosse successo l’infausto accadimento. I salari erano bloccati per la dilagante disoccupazione, e non sarebbe stato ovvio poter comprare una nuova piscina nel caso in cui fosse stata bucata.
Per fortuna fui diligente e non servì un loro intervento.
Mi ringraziarono, così sorridendo in risposta, ebbi modo di posare lo sguardo con più attenzione sui loro corpi immortalati dal sole.
“Perché lasciarsi andare così?”
Ragionai tornato nell’ozio, immergendomi completamente quella volta.
Portavano a spasso ventri gonfi e spalle secche senza un muscolo, braccia di lepre al forno, tirate e arse, visi spellati dal sole ma ben definiti, fieri dei loro pasticci.
Dormivano quando capitava, al termine di gozzovigli tra i vicoli o sui tetti. I corpi ne risentivano dell'essere mai lasciati in pace, nutriti di quattro scemenze trovate nelle viuzze a ogni ora, abbeverati dal caldo e irritati dalla birra, coi ventri larghi anche se non ancora ceduti, dalle pelli tese e tostate, dai capelli infeltriti, immersi nell'azzurro del cielo turchese.
A vivere così, sostenuti dalle concessioni statali, c'era chi chi e chi.
Gestivano vite come videogiochi.
Non finivano il livello, salvavano e uscivano per fare un giro.
Il sole intanto vegliava su me che scherzavo con l'umido fiotto ascoltando musica da ballare perso chissà dove in una situazione poetica.
"Guardate quanta acqua!”
Pronunciò uno di loro, dopo che con immenso sforzo avevamo ribaltato la piscina prima di andarcene. Eravamo poi rimasti lì un attimo, ad ammirare il liquido riversato a terra, che si era spanso copioso per gran parte del belvedere.
"Quanta acqua..."
Esclamò ancora il ragazzo dai capelli lunghi, biondi, legati in un pugno di fili.
Ci sentivamo smarriti in seguito allo sforzo di ribaltare la piscina. L’acqua prima azzurra, pareva nera a quel punto, per via del fondale catramoso. Non era meno scintillante di prima, seppur di tutt’altro si stesse parlando. La differenza possibile tra un modo di scintillare e un altro ci sorprese.
"Quanta acqua..."
Riusciva solo a dire. Un altro rise. Io respirai calcolando la probabilità di stare così in eterno.
“Per sentire stupore, devi essere stupendo”
Venne in mente allora, come la volta in chiesa a Roma.
Provavo estasi in misura di quanto ne fossi composto.
“Forma è sostanza, si ricordi!”
Sostenne il professore quel tetro giorno.
“Senti nel mondo ciò di cui sei composto”
Avrei aggiunto.
La replica alla sua precedente accusa parve divenire, grazie a quel lampo, più strutturata. I materiali che mi componevano, entravano nelle forme che incontravo. Vedevo me stesso attraverso di loro. Ogni occasione permetteva solo di scoprirmi.
Fuori, tutto mancava, ero io a riempire la pelle caduta del mondo con ciò di cui ero ricco.
A seconda delle sostanze trovate in me, le forme del mondo si gonfiavano di una vita diversa.
Se colmo di visibilio, anche un catino sapeva di gloria, e così via.
A scarseggiare era la sostanza, la grande vanesia. Ciò di cui parlava il professore, forse, non era garantito, ma andava trovato in sé, scelto fra tutti i materiali che tenevamo dentro al nostro immenso universo. Una cernita di ori e uno scarto di paccottiglia... ecco, magari, cosa aveva cercato di dirmi, e cos'era la vita secondo lui.
Rimasi un attimo a contemplare il cielo assaporando un leggero brivido corrermi lungo la schiena.
Non mi aspettavo di ripensare a lui.
15
Ancora gli urletti giungevano dal cantante stradale, il quale alternava fischi e pernacchie a seconda che le ragazze di passaggio gli piacessero o meno. Eravamo intanto scesi frastornati dal palazzo, tristi perché non avremmo più visto quella piscina sui tetti.
"Vi fermate in ogni posto, è impossibile raggiungere la macchina con voi. Minchia"
Gridava il bambino alla madre rimasta indietro sbirciando le vetrine.
"Scusa, che ore sono?"
Chiedeva un passante, il quale ringraziava poi appena ottenuta risposta.
Quante lamentele per strada. C’era chi sentiva fastidio alle cosce e per questo si riposava all'ombra di una chiesa, chi suonava l'arpa e intanto malediceva il caldo, chi, chi e ancora chi. Molti invece erano in fila alla ricerca di esaudire un sogno, o di nascondere un tedio.
Certi ben vestiti ed alcuni no, tutti a passeggio nel corso durante il suonare del mandolino accompagnato da voce dialettale al canto, riempivano le strade.
Il pomeriggio se ne andava lento spinto dalla brezza.
"Questa è la vita"
Disse un tale transitando, mentre un altro, dietro, rise sguaiato per chissà quale altro motivo.
Era promiscua, la città. Potevi girarti tra i lenzuoli con la Regina una notte, e quella successiva stringere alleanze con la Ciambellana senza avvertire mai un senso di pulizia o soddisfazione, lenendo solo i dolori della fatica, del caldo, con altra fatica e altro caldo, continuando a sperare nei miracoli.
Dove stava la purezza a Napoli non riuscii a capirlo.
Del resto, in che luogo di me si trovasse la suddetta qualità avrei faticato a dirlo.
Ad una certa età forse era un ricordo, o magari ve n’era una scorta per momenti difficili a capitare, segreta.
Troppe faccende avevano calpestato i vicoli per lasciare una pubblica ingenuità visibile. Se ci fosse stata, qualcuno l’avrebbe subito presa.
Giusto la notte al finire dei chiassi la si poteva trovare magari tra qualche bacio di coppia innamorata, ma non altrove.
I pescivendoli svogliati intanto, nel pomeriggio infinito, speravano di vendere ancora qualche pescetto, impalati e ritti come mummie, con occhi scavati e circondati di nero.
“Portalo qua!”
La padrona del banco frutta impartiva brusche disposizioni al tirapiedi buono a nulla.
“Un chilo di fichi. Tutti direi, meno quelli marci”
“Non ce ne sono di marci”
Esclamò scontrosa.
“Prendi un sacchetto e daglieli!”
Ordinò come se il cinquantenne senza denti magro e mal vestito fosse schiavo.
L’uomo fu gentile e non mise nel sacchetto di carta spessa gli esemplari avariati nonostante la padrona fosse stata chiara.
La donna appollaiata sul magro sgabello notò la gentilezza ma non s'azzardò ad aggiungere altro.
Comprai i fichi, tutti, meno i resti putrefatti.
“Due euro”
Gridò.
Tra i materiali di cui l’uomo era composto: ira, amore, meraviglia, odio, la signora pareva tenere più a cuore, forse perché ne era ricca sin dalla nascita, la superbia. Dal trono in latta sferzava gli schiavi e malediceva il destino quando serviva.
Rimase zitta solo perché due euro non meritavano ulteriori energie del suo prezioso esistere. Tuttavia, dentro, assai ribolliva di livore; il sopracciglio asimmetrico infatti, evidenziava un non detto pronto a frustare.
Intanto, salite, discese e mille curve interrompevano un sole costante.
Le strade erano rotte, spuntavano pietroni sghembi, buche improvvise. Dallo sterrato, il manto si distingueva solo per l'assenza di polvere.
Le vie sopportavano l’inerzia di una città agli sgoccioli. Pareva vivessimo del vinile l’ultimo giro, prima che un fruscio ininterrotto coprisse ogni vociare.
16
Il resto del mondo erano boccioli ignari di poter fiorire, piante all’ombra del vivere.
Desideravo che le persone si eccitassero con le parole, che potessero distendere i propri petali sentendosi compiute.
Ero felice se con una frase riuscivo a insinuare eccitazione, se discorrendo portavo sorpresa, vizio o bellezza.
“Stavate forse pensando a un bacio?”
“Solo pensieri d’amore rendono tanto radioso un viso...”
“Ah no? Posso invidiarla quindi?”
“Così, la invidio. Un tanto maestoso apparire senza vagheggiare di squisitezze... Complimenti, tornerò a casa con un dubbio...”
“Mistero!”
“Conoscete il nobile Pietro Furia di successi?”
Disquisivamo con qualche ragazza un poco e tornavamo dagli amici. Solo appiccare incendi volevamo, non collezionare pentolame. Delle braci preferivamo che se ne occupassero i ristoratori. A noi affascinava l’aprirsi della foglia prima del trasalimento, l’attimo in cui una vita non è mai stata così radiosa, appena prima di accendersi; non altro.
Finezza priva di macchia, eleganza di possibile amore, nulla brucia più forte di un’alba pur non lasciando cicatrici, e noi volevamo assistere solo a quel genere di spettacoli.
Speravamo che sorgessero pensieri maliziosi; speravamo di risultare un cabaret dolce la mattina presto.
Una volta tornati, poi, l'amica di Emilio, Micol, domandò:
“Cosa beve, Generale?”
“Io?”
Risposi trasognato, incerto se proprio al sottoscritto fosse stata rivolta una domanda ben posta.
“Certo lusinga di ponte!”
Proseguì imitando il nostro consueto discorrere.
“Bevo speranze, come sempre”
La piazza tossì, poi chiese un bicchiere d’acqua perché in affanno.
Riprese a vociare solo dopo un paio di colpi sul petto, una deglutizione faticosa e profonda.
La risposta sconvolse le ginestre, diede fine agli sconti.
Mi guardava come una donna a cui serviva un amore per non smettere di credere in sé stessa; era a un soffio dal piangere. Vestiva una gonna bianca, sgualcita, un poco sporca, leggera, di un tessuto artificiale, portata alta per coprire la cucuzza del ventre gonfio e il suo filo di grasso. Teneva Il seno protetto da un rettangolo di stoffa sottile e spesso, peloso, verde, impallidito. Ricordava le donne perse in stazione.
Pareva che cercasse le attenzioni del sottoscritto perché il mio discorrere la faceva sentire a corte nonostante fosse sul limite del lastrico, senza soldi e senza lavoro fisso, con carta fuori uso e procedure per il reddito universale premature.
In mancanza dell’amico turco venuto per adescare uomini a Capri, non avrebbe saputo come sfamarsi.
“Lo sapete... Siamo uscite solo per sentirvi parlare”
“Quale onore, gentili ballerine di can can...”
Le ragazze perdute ci consideravano muse.
Non dormivano da giorni, eppure sentirci esprimere valeva l'ennesimo sperpero di sonno.
Pietro Furia di Successi mi guardò inanellato dall’ennesima nomina.
Da reggi calze a trionfo in un paio di notti; il Cavallo si era ripreso, era tornato al galoppo nel regno dei cieli.
Tutti amici di Emilio eravamo. Gestiva un elenco telefonico di persone innamorate del suo modo di essere. Lo andavano a trovare di tanto in tanto per gioire ancora della sua presenza.
Quell'anno, grazie a lui avevo conosciuto Micol e alcuni altri ragazzi, i quali avevano appena trovato occupazione per una decina di giorni. Un frenetico bisogno di aiuto caratterizzava agosto.
Anche gli spacciatori riposavano, figurarsi i camerieri.
“Così mi pago la stanza”
Sosteneva qualcuno.
“Se va bene resto a Napoli, perché tornare a Milano?”
Erano stanchi per lo sforzo di vivere e lavorare. Mancava tempo per rigenerarsi.
Restavano in posizione eretta con il drink in mano e le risate da lanciare, le orecchie ben dritte e una vaga speranza di accoppiarsi.
Eroi di una società perversa, resistevano nell’obbedire a regole sbagliate suggerite da chissà cosa, senza indietreggiare; piuttosto sarebbero crepati.
Essere lodato dai folli mi spaventava. Pareva che ritenessero possibili eventualità remote, che avessero fede nella mancanza di senno.
Dubitai così di me e dei poteri che ritenevo di avere.
“Gentili carni, voi ci estasiate. Siamo celesti ora”
Ed avevano riso. Donavamo vita, gonfiavamo piscine nei loro cuori.
“Io non voglio amici, desidero solo amori”
Sostenni.
Speravo che il nostro incontro fosse riportato agli atti con enfasi pari ad un amplesso, non meno, altrimenti sarei rimasto a casa.
Ero ricercatore di quello speciale materiale, la massimizzazione della circostanza.
Non si poteva che convenire; parve a tutti così perché sorrisero rimanendo taciturni.
“Caro Preside, caro Preside...Ha brillato per lei oggi il mare?”
Chiesi dileguandomi. Era necessario sparire, non potevo parlare sempre con tutti.
Mi difendevo, perché altrimenti ad ogni frase si sarebbero attese un capolavoro. Impossibile sorprendere in eterno, per il momento almeno. Preferivo dunque scomparire all’ombra di un ricordo con cui ognuno avrebbe discusso cercandomi.
“Fata Turchina, lei ci mancava... Martedì non sarà mai più come ieri, la avverto”
“Questa sera ha dimenticato le catene cara direttrice? Non scivoli che è buio...”
E me ne andavo per rimanere solo.
17
Arrivò Emilio.
“Albé, ma stai bene? No, così, io so sincero...”
“Ma sincero di cosa?”
“Ma niente, così, lo dico perché ti voglio bene”
“Ma di cosa stai parlando?”
“No, niente, anche prima sugli scogli...”
Sul promontorio ero rimasto defilato per evitare il loro vociare. Desideravo sentire il mare confrontarsi con sé stesso ribattendo la scogliera.
Non si poteva ascoltare il mare a Napoli?
“Te lo dico perché ti voglio bene”
“Emilio, cosa mi stai dicendo? Che mi trovi male? Che sono impazzito? Vuoi dirmi che sono fuori controllo?”
“Ma io no, Albé, lo dico perché voglio che tu sia contento...”
“Lo sono...mi sto divertendo moltissimo a Napoli. Pensavo di scintillare”
“Ma sii, certo che scintilli...”
“E allora perché stai dicendo questo?”
“Prima parlavi del tassista, no?”
“Ma si, così, per dire. Essere considerato un demente da borseggiare non era tra i piani, ma va bene lo stesso”
“Ma tu Albé, devi anticipare! Sali sul taxi e domandi: "Piazza XY, quanto facciamo?"”
Se monti senza contrattare poi si aggiunge il costo della chiamata e l'attesa. I 18 diventano 25”
“Ah!”
Pensai. Quindi parlava per chiarire i motivi del raggiro, spiegare come mai fossi in torto addirittura riguardo alla più semplice delle convinzioni. Vittima di furto? Scherziamo? Colpa mia, l’avevo cercata.
Non sembravo pazzo dunque. Che sollievo, erano appena questioni di malavita. Niente di neurologico, potevo tornare a ballare.
Dov’era la piazza tra stelle e rottami in cui mi trovavo l'attimo prima?
Che sollievo Emilio, che sollievo! Erano solo questioni di giardini, disposizioni stagionali e rivoli d’acqua, fiori e farfalle.
Il mio parlare non era folle come non lo era l’idea del tassista onesto.
Emilio era un bravo ragazzo, voleva che i suoi amici gioissero; Emilio mi voleva bene.
Era purtroppo stata colpa mia.
"Cose da cui imparo" sosteneva Pietro furia di successi accettando la perdita di 7 euro.
“Devi stare con me fratello”
Suggeriva Emilio sicuro.
Allora lo ringraziai per il bene verso di lui provato. Mi dispiaceva non restare oltre, tuttavia ero convinto che indugiando sarei stato persuaso da troppe idee, e per quello ritenevo che fosse giusto proseguire.
Incrociai a quel punto una ragazza del tutto simile a colei da poco intravvista nei pressi di Piazza del Plebiscito, quando scesi dal bus ci chiedemmo dove fosse il duecentouno per la coincidenza.
La guardai perché avrei desiderato porle una domanda. Ma no, poteva sembrare, però, simile in viso risultava differente in slancio. Sarei rimasto con il sottile quesito: era in vendita o svestita per caso?
Ci era infatti parsa d’innanzi una giovane cortese senza mutande, posata sulla gamba di un tale.
Rivolta al via vai indossava una minigonna di jeans, la quale permetteva che il sole entrasse nel profondo della prospettiva, illuminando il lindo e il levigato possibile.
Terminato lo spettacolo, avevamo continuato la via un poco eccitati per aver visto una figa nel viale del centro, ritenendo quell’uomo solo un nostro simile più fortunato.
Non era prostituzione all’aperto. Lui? Mai! Non un pappone a cui si corrispondeva il pagamento.
Avevamo pensato invece che fosse un amore a bordo pista, davanti al palmetto carico di frutti arancioni.
Puri e smaglianti come una fonte eravamo, credevamo a tutto.
Peccato non fosse lei. Avrebbe suscitato diletto osservarla una volta in più, cercando di capire, senza chiedere suvvia, magari qualora...
“Si ama l’uomo capace di parlare bene ma si finisce con il terreno che alimenta un buon frutto”
Avrei introdotto così l’argomento?
Ma no, no, solo osservare l’avrei, se fosse stata.
Napoli era una donna inesistente sotto al vestito, un trucco di tessuti.
Nulla era ciò che pareva, quella donna come tutto.
Lo ribadì anche un gruppo la notte stessa nei vicoli, incontrato appena ripresa la marcia verso il Cavallo smarrito dopo qualche galoppo.
Scorta la sagoma, svelto non fui abbastanza per salvarlo dal pericolo banale.
Al fine d'essere all’altezza e incantare, il gestore di pasticcerie massaggiava il tabacco nel centro del viottolo, quando, un motorino spuntato dall’angolo, impennando, procedette in direzione sua a velocità sonora. Il popolo allarmato, a quel punto si gettò indietro un poco scosso, mentre la prode scultura, bianca, macchiata con luci da vetrina, non si accorse del rischio perché intenta a sovrapporre le estremità di una cartina.
Comprendevo che servisse spazio mentale per entusiasmare, ma non poteva stare più attento l’armatore di gusci vuoti? Mi sarei dispiaciuto nel trovarlo poltiglia. Dopo tutta la fatica per ottenere una furia di successi, dover chiamare sua madre comunicando che Pietro fosse stato demolito, per carità!
Si era fortunatamente destreggiato bene non facendosi intimorire da quei personaggi cinematografici.
Lontani ormai i bolidi su ruote, riuscii ad emergere rispetto alla folla ancora stretta lungo i muri, e lo raggiunsi.
“Sei un pazzo a non aver saltato!”
Esclamò un altro ghermendolo con le parole. Era da lui giunto prima di me un gruppetto di amici che non conoscevamo.
“Non sono pazzo. Io sono Pietro Furia di Successi, gentile amante dei pistacchi”
Aggiunse quindi un sorriso prima di infiammare il lungo cilindro tenuto fra le dita.
Chi prendeva qualcosa non era poi detto che subito non smarrisse altro, in quell’infinito dare e farsi risarcire.
“Qui a Napoli tutto è dissimulazione, creata da chissà chi per ottenere un cosa destinato a conservarsi nel mistero”
Spiegò il gentile sconosciuto di strada.
“Anche ora?”
“Chiaro”
E rise.
“Bisogna stare attenti”
“Impossibile. E' necessario invece stendere il proprio affresco davanti agli occhi altrui e giocare”
Cominciò a proposito di un argomento dimenticato.
“Pensate mio nonno, finita la guerra, nella tromba delle scale, sporto sul parapetto attendendo che una donna apparisse tra gli affacci, per qualsiasi motivo: stendere i panni, scuotere la tovaglia...”
Prese a raccontare.
Quando compariva una ragazza sul balcone o alla finestra e si poteva ritenere plausibile che restasse un poco, suo nonno ricercava con lo sguardo un soldato americano a passeggio nel corso, e lo chiamava con un fischio.
Era sufficiente un cenno della testa e avrebbe capito.
C’era una donna, poteva averla, costava qualche sigaretta e un po' di farina.
Il soldato tornava quindi in caserma alla ricerca dei termini contrattuali domandandosi in quali aree non comuni avrebbe trovato il necessario.
Appoggiato alle scale, poi, il nonno controllava che non mancasse nulla, quasi il cenno d’intesa fosse valso una richiesta precisa. Approvata infine la merce, guardava un'ultima volta il soldato, prima di mostrarsi soddisfatto in un gesto accondiscendente del viso.
“Ask Francesca, quarto piano, four”
Componeva un quattro con le dita indicando su.
“Left”
Il soldato speranzoso così saliva, mentre l’uomo uscendo si dileguava. Il tutto prima che l’invasore restasse con una pipa di tabacco in mano per la mancanza della cara ragazza.
Quella, era la dimora di chissà chi, e la donna, una casalinga infastidita che lo allontanava a male parole.
Come possibile accettare il nero sia bianco... invito, inganno, accordo un esproprio?
Era tutto così?
Gentilezza per accreditarsi e bellezza come persuasione?
Si diceva forse il contrario rispetto a quanto affermato nei dizionari?
Un “ti voglio bene” era un “mi servi”?
Un ti “porto al mare” significava “Mi concederai un favore”?
Emilio ancora da me non aveva ricevuto poi molto. Cosa avrebbe chiesto?
“Emilio vuole che io sia felice, mi vuole bene”
Risposi a me stesso spegnendo il male.
Curiosi di un ragazzo impavido nel mezzo di un circuito, avevano per naturale impeto inneggiato al caro Nostromo.
Ma come non si era spostato? Uno scandalo, un duro di cuore speravano di aver trovato; perciò si erano mossi a domandar chi fosse.
“Mi commuovete per il buon cuore. Stavo sognando. Ho rischiato molto?”
Pronunciò scuotendo capo e capelli nel tentativo di levarsi un fastidio mentre accendeva. Guai bruciarsi la criniera.
“Venite da questo luogo d’incanti?”
Erano autoctoni. Li trovai sereni ma senza più nulla da rivelarci; perché allora non se ne andavano? Chiesi a me stesso caduto in una bolla di preoccupazioni.
Come scacciare l’indesiderato era sempre un immenso disagio che cercavo di risolvere in fretta anche senza educazione, ma quella volta no, mi fregarono.
A domanda ritenuta ottima per fuggire in seguito, un tale fra quelli prese a raccontare di suo nonno.
Non preferivano discorrere con le furbine dagli sguardi curiosi e schivi disposte ovunque?
Il tempo però mancò per ascoltare ragioni.
Peccando di ambizione, presentammo le dimissioni, e, terminata la breve storia, senza rispettare i tempi del buon dipendente, tra un fischio e un abbraccio, salimmo il vicolo in direzione di incensi e benedizioni.
“Guardatevi sempre le spalle, non dubitate mai di noi”
Dichiarò la furia di successi scegliendo un punto col dito, toccando l’aria, mentre piroettando enunciava addii.
Ci inchinammo per un ultimo saluto di riconoscenza. Poi ci scambiammo i sorrisi dell’arrivederci e non li vedemmo mai più.
18
Non erano le domande ad esaurire ogni quesito?
Era l’amore un dubbio venuto per sciogliere l'infinito chiedersi?
Persi il contatto con la realtà quando conobbi una maestra che si era persa.
Girava la sera struccata, aveva lunghi capelli diritti verso i sampietrini del centro, chiari e lucenti, della stessa cromatura candida di quelli del cavallo. Parlavano una lingua comune, lei e l'amico: il corrusco.
Capii di essere nell’altro mondo quando, su mia richiesta di conoscere un segreto a lei caro, confessò che le piacesse cantare mentre sfaccendava.
La esortai quindi a non rendermi orfano di quanto potesse mostrare.
“Per favore, canti”
Non rifiutò, e anzi, le si abbellì il viso di un tenero sorriso.
Prese così tanta vitalità da farmi temere che prima fosse annoiata. Salivano le gote sue verso il cielo, mostrando il palcoscenico del sorriso fino ai canini, mentre la spina dorsale le si drizzava tornando irrorata di stimoli e controlli.
Mi accorsi allora che di colori negli occhi ne avesse due, uno verde e uno blu, e che fra gli incisivi ampi della bocca regnasse un sottile spazio.
Era pronta.
“Non facciamoci paranoie, si sta così bene adesso”
Pensai guardandole il viso felice di cantare, pieno di ogni cosa bella.
“Fumo blu”
Iniziava.
“Fumo blu, una nuvola e dentro tu...”
“E poi, e poi...”
Inneggiava salendo.
“Se un uomo sa di fumo...Ma sì, ma sì”
Si preparava al meglio.
“E' veramente un uomo...e io ti amerò, finche vorrai,
proprio perché sei così...”
Continuai a inchinarmi e ad invitare con gesti emozionati i compatrioti nella piazza. Udite! Udite tale magia! Volevo condividere insieme a chiunque uno stupore enorme. Era una Dea, e non volevo perdermi lo spettacolo della sua vita da quel momento in avanti.
Per lasciar intendere la convinzione salitami nel cuore, fu sufficiente affermare:
“Basta. Passami le federe. Rifacciamo la notte perché domani il tramonto non parlerà più due lingue”
Si ammutolì. Di nome faceva Romana.
Gli Dei, di quello si compiacevano stesi lungo comodi triclini durante i pasti: osservare i commedianti umani intendere il mondo attraverso i sentimenti e i credo da cui erano più presi.
Come si divertivano a vederci, pensai.
Un collezionista di gergo abile nel risvegliare desio di lustro in ognuno, e lei, che provvista di bellezza tonda attirava ricchezze nella speranza che apparisse il pieno per i suoi vuoti.
19
Nel pasticcio di baciarsi e nel fervore di tenersi, cadde il cellulare e i suoi cristalli si frantumarono. Tutto bene, sarei rimasto, informai il dattilografo cerebrale così che archiviasse la seduta.
“Sei molto bello Alberto”
Risposi “No”, anche se una domanda latitava.
“Sei di più, sei un uomo intelligente...”
Annunciò osservandomi.
“Desideri non vedermi ancora?”
Replicai, ma rimase silente.
“Dove ci sono domande risiedono possibilità”
E mi abbandonai sui lenzuoli nella piccola stanza.
Peculiare fattispecie che una meravigliosa Dea fosse abituata ad appisolarsi in un lettuccio tanto misero, presso un vano certamente ripostiglio un tempo, buio e umido in antico palazzo.
La dirimpettaia forse avrebbe poltrito lì, ma nemmeno. Bugigattolo per scope, arnesi e confetture, non per la candida pelle e i fatati capelli di una maestra.
Ero passato per lo sprovveduto e le finestre intorno ridevano del sottoscritto. Illudersi davvero che fosse una maestra!
Credevo a tutto di lei anche senza conoscerla. Accettavo persino che la verità cambiasse pur di starle vicino.
Il tenero sentimento però non volevo ammettere; preferivo mantenermi all’altezza di chi se ne può andare, con cui nulla è certo senza stargli abbracciati stretti al collo.
Come mai incontrai uno splendore nello sgabuzzino? Mi chiesi.
Era poco usuale che una cantante di simile livello dormisse in un così povero giaciglio. Anzi, no, dimenticavo l’epoca dei racconti, in cui soprani lavoravano come sfascia carrozze e grandi ballerini contavano denaro nei bar.
Una nobile artista finiva senza difficoltà in stamberghe umide facendo la segretaria.
Dal canto mio, non volendo che pensasse alle avversità di una vita fantastica, così la invitai al mare, in un posto definito da tutti: "perfetto".
Il suo corpo era lungo senza risultare eccessivo, formoso e proporzionato, secco nel coprire bene le curve, dai piccoli seni all’insù spuntati in mattinata.
Era un angelo piovuto sul demonio?
Intanto ero con lei, e anche le onde festeggiavano quella sera, di aver trovato un mare con cui fondersi e non una roccia contro cui sbattere.
Il litorale diventava nero mentre il cielo si macchiava di giallo.
Mostrava quanto abile fosse, l’estate.
““Rivestiamo di federe la notte. Domani il tramonto non parlerà più due lingue”. Ricordi?”
Ci portava indietro un vecchio. Remava gonfio di sole, nero bruciato, bianco peloso, con pochi ciuffi di capelli laterali.
A quando la discussione? Visto che non eravamo una scuola di recupero per romantici delusi.
Solo per me intendevo parlare, se non altro perché ero costretto dal mio essere a mangiare magie, e senza un twist non potevo dormire.
“Esistono tutte le menti possibili. Sai? Esistono tutte, e di alcune ce ne sono addirittura infinite copie. Alcune invece sono molto rare e preziose”
“Cos'è più giusto della libertà?
Io voglio essere libera”
Cambiò sentiero lei.
Assecondai allora il suo volere attraverso le direzioni scelte dal mio interesse; speravo di conoscerla.
“I liberi sono egoisti. Gli egoisti cercano di sfruttare gli altri per sentirsene superiori. In una società così non si sta bene.
L’armonia andrebbe cercata, se non prevedesse una comunità più devota al tutto rispetto al particolare, se non implicasse un’abnegazione di autogoverno”
“Vuoi mettere Maria Antonietta?”
Replicò ancora il giovane prodigio.
“Si alza e suggerisce di mangiare brioche a chi da mesi non vede un filone, poi spalanca le persiane e scruta un parco composto da geometrie floreali e arboree lungo che se ne perde la fine.
Gira lo sguardo ed è fra ori, specchi dalle cornici intarsiate fino a smarrirsi e gioielli abbandonati vicino a champagne e cacciagione”
“Il costo di queste sciocchezze le rende atroci.
Poi mi scusi, ma costoro non generano che guerre! Con persone simili muore il popolo come mosche”
“Dai, ora sostieni che la libertà sia incompatibile con una società equa. Ma sei un cinese? Ti sta pagando il partito? Dillo, tanto bello e straziante! Sarai in fondo pagato anche tu da qualcuno...”
Spericolata.
“Di solito è l'audacia a ricompensarmi”
“E con quale moneta?”
“Hei, nelle tasche dei gentiluomini è bene non guardare”
“Ha ragione, mi scusi”
Così dovetti persino assolverla, neanche fossimo sposati.
Ci stavamo perdonando? Tenevamo già conto delle reciproche speranze quando prendevamo una decisione? Strani fatti accadevano piacendosi, e io ne sorrisi.
“Essere tutti Re... La libertà prevede una totalità di Sovrani”
“No, non dominatori, non ha capito cartolaio! Non si parla di Monarchi, intendo il più puro e assoluto amore. Ciascuno merita solo quello. Nessuno è libero senza essere amato.”
Era molto diverso, aveva ragione.
“Il più puro e assoluto amore....”
Un pensiero nuovo, configurazione aggiuntiva da visualizzare.
Convenni di certo che fosse quello a servire.
“In effetti, senza che qualcuno ci ami è impossibile credere in noi stessi, e senza fiducia nella propria essenza come si potrebbe essere liberi?”
"Ma quindi l'amore..."
Ripresi visibilmente impegnato. Dove mi stava conducendo?
"Amare è voler conoscere ciò che rende possibile quel magico sentimento. Chi non vuole conoscere, non ama."
Mi interruppe da quel balbettamento.
Restai zitto.
“Ipotizziamo quindi una società fondata sul miglioramento?”
Proseguì lei travolgendomi nei pensieri.
“Di sicuro il piacere no, e neppure la libertà, visto che essere amati o amarsi è tanto difficile. Scartata persino l'armonia!”
“Addio amico cinese!”
“Lo scintillio costante di chi affina, impreziosisce, misura”
Ero sconvolto.
Ci imbattemmo a quel punto in una grande pianta di oleandro tornando sui nostri passi. Immensa, gonfia da scoppiare, scossa dal vento e ricca di fiori tremanti.
“Guarda, tu sei lì”
E indicai un fiore nel mezzo
“E tu sei là”
Ne indicò un altro.
“Ciascuna vita deve parlare a qualcuno.
A chi vuoi parlare, cosa vuoi dire?
In quale ambito vuoi misurarti?”
“Elenchi le domande più frequenti su internet?”
“Le cerchi anche tu?”
“Sì”
Ridemmo.
Svelai che stessi cercando una formula in grado di mostrare cosa fare nella vita. Ecco l'unica grande domanda, sostenni.
“Vai dove ti piace migliorare. Lo dicevano i pescatori ai figli ieri mattina”
E mangiò qualche acino d'uva tenuto fino a quel punto nello zaino.
“Giovane segretaria del partito, fatico a stupirla. Sono esausto.
Devo assentarmi prima di svanire per sempre”
Così la lasciai in quel luogo, perché altrimenti mi sarei liquefatto nel rammarico di averla sorpresa solo a tratti.
20
Contattarla purtroppo, dopo quella sera, richiedeva un telefono funzionante. Tanta fortuna però mancava.
Allora una frenesia mi prese. Cos'era accaduto la notte precedente?
Era vero o no che me ne fossi andato?
“Avanzo di galera imputridito! Cos’hai fatto?”
Esclamai su me stesso disperato. Neppure ricordavo se il numero avessi della ben temuta Dea. Che pasticcio, che pasticcio; dal velluto alla bocca di un varano ero finito in pochi, semplici e folli passi.
Scalmanato mi precipitai così vicino alla stazione cercando un esperto in elettronica, perché se un compito avessi avuto nel mondo, era di rivederla.
“Un’ora? Va benissimo. Anche del trinciato ne vendete?”
“Scusi, sa dirmi un tabaccaio dove sia?”
“Sono chiusi oggi. Cosa le serve?”
“Shadow blu”
“Shadow? Ne ho io”
Riprese un uomo basso, poggiato all’angolo.
“Quanto ne vuoi?”
Proseguì scattante impedendo che ragionassi.
Affermò di averne per metà prezzo, “paghi un pacco e ne prendi due”. Un grande affare considerato il tempo scarso e il languorino di fumare. Anche lui con parenti a Milano. Ma dai, sua figlia incinta.
“Non ho il resto se mi dai 7”
Ed afferrando una tasca rese immaginabile un cospicuo numero di banconote dietro la stoffa. Per forza scarseggiava in moneta, lo stavo importunando durante traffici ben più consistenti.
Almeno avrei agevolato il reperimento del resto se avessi fornito materiale per lo scambio.
Estrassi quindi la banconota da cinquanta prelevata per lo schermo. Peccato, perché non feci in tempo a porgergliela che questo già camminava lontano, e io non avevo più niente tra le mani.
Lo seguii, ma purtroppo venni bloccato da alcuni anziani poco raccomandabili.
“Sai, è quartiere di Camorra questo. Stai attento; li hai persi i 50 euro”
“Come li ho persi? Dov'è? AVANTI!”
Allora, forse intimoriti, indicarono verso qualche parte là. Così proseguii testardo finché quello spudorato cane non emerse munito di una gonfia sporta.
“Stavo tornando da te... Non c’era bisogno di seguirmi. Mi ero sbagliato e non avevo il taglio giusto; sono venuto a cambiare una banconota grossa. Vista la fiducia, tieni il sacchetto in pegno, ci sono alcune stecche. Adesso cambio i pezzi e scendo”
Quanto valevano 6,7 stecche? 200, 300?
Ma ancora giunse il gruppo di anziani.
“Questo è un gioco antico, ragazzo”
Si stavano beffando del sottoscritto e non sapevo come uscirne.
Seguire un vecchio per comprare tabacco a metà prezzo dietro la stazione... roba da meritarseli cinquanta euro in meno.
Era come desiderare un furto, in pratica.
Pareva già di sentire Emilio: "Devi stare con me".
Casualmente invece, ripensai all'uomo della tavola calda passandomi una mano fra i capelli.
Sempre così ne uscivo. Scriveva l'ordine su un foglietto e consegnandolo indicava la cassa.
Avrebbero portato loro al tavolo, nel frattempo scaldavano le pietanze.
Come mai di fianco all'acqua era segnato un x 3? Ti chiedevi.
Il cassiere rispondeva ignaro, non aveva scritto lui. Del resto, il cameriere tuttofare stava ormai gestendo una ressa di clienti appiccicati alla vetrina del bancone per vedere se i polpi alla Luciana fossero ben cotti. Un gran vociare per assicurarsi l'ultimo trancio di merluzzo riecheggiava nella sala.
Vista la folla si era confuso, oppure si trattava di una dicitura interna e infine il costo sarebbe tornato? Battuto e decifrato, lo scontrino era fatto, il totale non permetteva illuminazione, e pagavi. A chi domandare altrimenti? L'uno non sapeva e l'altro era vittima della calca famelica.
Che talento, scrivere un semplice per 3, o inventarsi il prezzo del contorno perché al mercato in quell'alba d'agosto i fagiolini proprio un sovrapprezzo sulle melanzane avevano subito, e tu quello avevi scelto. Un raddoppio era corretto. Via, sottolineato nel foglietto e consegnato con un ringraziamento incoraggiante.
"Ottima scelta"
Il cliente successivo già domandava cosa ci fosse nel pasticcio mentre tu ancora risultavi soddisfatto per l'approvazione udita.
Ci tornavo ogni giorno.
“Le stecche nel sacchetto sono mezze vuote. È un trucco”
Ma no, come? Ero stato raggirato di nuovo?
"Fatemi controllare"; impossibile essere tanto con le braghe calate.
E invece avevano ragione.
“Il sacchetto ora ti varrà una ventina di euro. Peccato per i 50”
“Te li do io, però vattene”
Esclamò uno del gruppo.
“20 e arrivederci”
Venti e arrivederci mi piaceva; meglio di niente. Consegnai la busta e presi il blu pezzo di carta.
Chiesi poi un pacchetto al tabaccaio dietro l’angolo e imparai a distinguere il denaro falso.
Ero rimasto con un fischio di noci.
Pagai le sigarette usando i restanti cinquanta e tornai dai vecchietti per offrirgli da fumare.
“Dai, fenomenali. Siete stupendi. Ne volete altri 40?”
“Vattene ora, questa non è zona tua”
“Avrei bisogno di parlare con un certo Scopelli, Dottor Scopelli. Non credo serva Jolly”
Solo avvicinarsi a quel nome con un suono permise di ricevere 100 euro e molte scuse tra le mani. Al primo piano già chiamavano il Dottor Scopelli e io seppi come concludere l'affare ancor prima di riallacciarmi le scarpe.
Come piaceva "ò bisnéss".
I malavitosi avevano una mente interessante, era un piacere osservarli in azione.
Il quartiere portava talenti. Jolly lo immaginavo contento dopo i fondi ricevuti per il teatro rionale.
Certo, poteva aiutarmi. Gioiva nel riabbracciare un vecchio amico. 8% di ritenuta concordammo tra genovese e Fernet.
“Jolly, che storia la nostra”
“Ci siamo incontrati sulla vetta del mondo”
“E da lì non siamo scesi”
Mi abbracciò come se fossimo a una corsa di mastini.
“Chi ti ha detto di Scopelli?”
“Uno che gestisce Casinò”
“Bravo. Sei sempre stato forte”
“Anche tu, Jolly. Sarà bello vederti ogni mese”
“Se conosci le persone giuste, voli”
“E' un po' che non tocco terra”
Rise ed appoggiò uno schiaffo sul mio volto.
“Ci vediamo al prossimo giro”
"Certo" risposi a Jolly. 8% di trattenuta sugli introiti dei validatori pagati senza farlo sapere era un risultato di cui festeggiare.
“Gentile maestra, le va un drink?”
Il telefono era risorto.
21
Purtroppo però, il Cavallo rimase vittima del virus all'improvviso.
Eravamo sempre all'aria aperta, veniva difficile capire come lo avesse contratto. Forse qualche amico di Emilio.
"Che sia stato in fila? Quando discutemmo con quel tale? O solo per via della folla rinchiusa in quello spazio angusto, nella pasticceria?"
Non ne avevo alcuna idea. Pensavo che magari, nel vociare concitato, qualche goccina di saliva infetta gli si fosse posata dov'era predisposto che potesse intervenire l'intruso.
A sentire la stampa, scienziati ed esperti brancolavano nel buio. Non si era capito come mai, cosa lo scatenasse. I sintomi erano invece piuttosto evidenti: mal di testa, tachicardia ed esaltazione, inizialmente, per finire poi con una strana spossatezza di varia intensità, la quale poteva anche causare il decesso.
Pareva che nel giro di pochi mesi, da una letalità prossima allo zero, si fosse saliti ad un rischio di circa il 10%, anche se di più era impossibile dire.
Poverino, Pietro Furia di Successi, fu pluripremiato un così folto numero di volte che il collo non resse l’ennesima medaglia. Stroncato sul colpo, seppellito dagli ori, si ammalò e si spense in ospedale dopo appena una notte.
Non seppi che dire. Restai lì senza idee, in mezzo al vuoto, trovando un pallido conforto solo leggendo alcune scritte lasciate nel bagno della terapia intensiva. Allora non ero poi così solo, pensai.
La mia preferita recitava così:
"Ora tarda, Napoli sotto la
pioggia, piazza Dante …
La cocaina giocò a Katia
L’ultima carta.
Si ricordò di piacevoli
giornate trascorse
con Berry sdraiati a Marechiaro
mentre le recitava
poesie di D’annunzio.
Sorrise!
È tutto un rilucere... rilucere oro,
oro nascente."
Chi era Berry, chi era Katia? Nessuno poteva dirmelo.
E soprattutto, come mai il Cavallo sì e io no?
I medici dissero molto in fretta che per fortuna ero salvo. Il virus colpiva subito o per nulla. Era meglio quindi che me ne andassi. Il corpo del defunto non poteva essere visto e conveniva uscire di lì per non rischiare altri contagi.
Io però, se prima l'obiettivo era univoco, a quel punto li sentivo moltiplicati. Avrei dovuto vivere a doppia intensità per riscattare i successi che Pietro non avrebbe più raggiunto.
Alberto Furia di successi non credevo mi si addicesse come nome, tuttavia, decisi che almeno avrei dovuto provare. Niente tristezze o freni, ero una furia di successi e dovevo chiudere le mie importanti missioni per celebrare, in aggiunta, l'amico scomparso.
Decisi di ripartire con un cocktail e un appuntamento, solo perché gli incontri stabilivano l’andamento del vivere, e io necessitavo di un twist.
22
Anche Romana in un sol colpo divenne strana.
Uscivamo insieme già da qualche settimana - perché intanto avevo deciso di prolungare la permanenza - quando cominciò ad agire in modo preoccupante.
La peculiarità fu che io non le avessi detto nulla riguardo all'amico scomparso, e che ogni cosa avvenne in modo indipendente.
Avevo deciso di tralasciare l'accaduto, vivere con il ricordo nel cuore e la pelle smaltata di vita, semplicemente perché sentivo di averne bisogno.
Invece lei cominciò a fare discorsi sempre più grandiosi.
“Magari non ti regalo idee splendide, o ragionamenti super logici, o intelligenti. Questo significa però che ci sia qualcosa di più elevato ancora in me, altrimenti te ne andresti”
Tra l'altro aveva un'eterna ragione da vendere, e io l'ascoltavo rapito, perché avevo l'impressione che ci fosse una qualche verità da cogliere in tutto quell'impeto.
“Sono un’eterna romantica.
Finché sarò in vita esisterà l'infinito,
quello che spero duri un amore”
“Quando morirò, l’inesauribile svanirà.
Non esiste una più romantica di me”
Dove, come faceva? Ero esterrefatto e preoccupato. Non riuscivo a spegnerla.
“Se mi dovessi lasciare, piangerò un anno. No! Due. Non sai quanto potrei...Tu sei il migliore di tutti”
“Smettila”
“No, sei il migliore. Vorrei stare con te per sempre”
Possibile che a me, che già esplodevo di energia, fosse capitato d'incontrare un mare impossibile da ammansire?
“Ditemi che vivrò così ogni giorno”
Ma la giostra interruppe il volteggio. Cosa stava dicendo?
Non volevo prendesse il morbo pure a lei.
"Forse è malata cara Maestra..."
Insinuai.
"Vuole farsi vedere da un medico?"
"Sto benissimo...cosa dici?"
“Va bene, va bene. Allora si rilassi, è il momento degli spaghetti in bianco. Le rimbocco i lenzuoli e la bacio, ne ha bisogno”
“Come fai ad essere così bello? Sei perfetto”
“Non smettere di fare l’amore con me, vorrei sentirmi così tutta la vita”
“Mercante di tappeti abbiamo fatto tardi. La carovana rossa non passerà oggi”
“E quando?”
“Non saprei. Forse mai”
E girai i tacchi.
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Ero a quel punto certo di possedere un dono.
Il tempo tra mille vigliaccherie si era premurato di nascondere al sottoscritto un premio dietro l’angolo.
Ispezionavo ormai la multiforme esperienza del vivere da trentadue anni, senza mai aver trovato nulla eccetto un continuo dileguarsi di piaceri.
Così compariva a me il tempo.
Un albero visto la prima volta era una sorpresa, destinata invece a svanire con il ripetersi dell’apparizione.
La realtà erano solo vecchi stupori il cui effetto s'ammansiva.
Persa l’euforia, restavano nomi e definizioni.
Alberi, cielo, acqua increspata nel golfo, sentire dolcezza, il freddo invernale, una voce nota.
Tutte scintille spente, ceneri di una sorpresa passata.
Ecco così, che io, in tutto lo svanire perenne, avevo incontrato la prima scintilla impossibile da spegnere.
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Negli ultimi mesi parlavo solo per raccontare le cose in modo incredibile.
Non conoscevo stimoli differenti.
Andando ancora nello specifico, da quando ero rimasto in camera abbandonato da Giulia, avevo deciso che qualora fossi riuscito ogni volta a discorrere tanto bene da sorprendermi nuovamente, sarei potuto uscire, altrimenti avrei meritato un pò di segregazione.
In pratica, più parlavo, e maggiormente risultavo piacevole agli orecchi altrui, visto che uscissi solo in caso di miglioramenti tangibili.
Il bello, stupisce, e chi è in grado di incantare restando nel lato amabile della vita risulta per forza splendido agli occhi di chi lo osserva, o di chi lo ode.
Affinavo quest'abilità perché sentirsi adorati mi piaceva, e siccome senza parole non lo sarei stato, ero costretto a salire la scala del pensiero per non incontrare morte anzitempo.
“Si è defunti senza stupore”
Pensavo.
La vita emergeva sulla carta velina dei nostri sensi. Un qualsiasi affiorare portava sorpresa per definizione, anche solo perché qualcosa di prima inesistente era comparso a noi. Il vivere così inteso era una costante meraviglia apparsa.
Allontanata l’impressione, allo stesso modo faceva la vita. Vita e sorpresa coincidevano; rimossa una, scappava l’altra.
E siccome ci tenevo a vivere, era necessario che sorvegliassi con attenzione la facoltà di stupire rimasta nei giacimenti.
A causa dell'ambizione, me ne andavo a zonzo non curante di cosa significasse per le anime del mondo incontrare una scintilla e poi vederla sparire.
Diventai pericoloso.
Liberavo luce a un livello superiore rispetto a qualsiasi possibilità di riceverne.
Tra le vie dell’Olimpo erano per questo iniziate da tempo a circolare voci riguardo un uomo in grado di ammaliare chiunque solo parlando.
Avevano così scelto una loro figlia, Tragedia, per arginarne il tumulto.
La nobile giovane portava in fronte lo slogan necessario:
“IL TUO BAGLIORE NON MI SAZIERA' MAI”
Una volta discesa in terra, dove altro potevo andare se non fra le sue braccia?
Ero indignato. Non importava quanto bene parlassi o quanto elegante fossi, restava affascinata ma non esausta.
Davo tutto placandola solo un poco.
Trovava sazietà appena nel vedermi esanime, quasi il suo piacere risiedesse nel condurmi in prossimità della morte per godere di rare espressioni.
Il fulmine apprezza il buio perché in grado di inghiottirlo.
Per lo stesso motivo, lei piaceva al sottoscritto.
Assaporavo la fine ogni qualvolta ci incontrassimo.
Delinearsi all’altezza di somme aspettative significava studiare giorno e notte. Bruciavo le tappe del possibile e del raccontabile.
Le frasi sospinte dal mio fiato erano prossime a una melodia ispiratrice di sentimenti.
Era rischioso persino entrare nel supermercato e pagare alla cassa, se solo ringraziare appariva un solfeggio tanto divino. Pronunciare tre quattro frasi obbligava chi avevo intorno a disperarsi, visto che nulla di simile avrebbero più incontrato.
Era dunque necessaria molta circospezione per non dare nell'occhio.
Fortunatamente giunse Tragedia, la quale assorbiva tutta la mia energia restituendo il vuoto da cui tanto mi piaceva ricominciare.
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Essere perfetti richiedeva più energia di quanta ne contenesse l’universo, il quale, immacolato non era.
Cercare quel genere di meraviglia risultava uno sforzo del tutto gravoso, capace di fulminare e fondere.
Sarebbe stato sufficiente un leggero imprevisto per finire in camicia di forze.
Se ritenete menta, provate.
Il dono scovato poco prima era tuttavia in me, inattuabile esimersi dall’affinarlo. Mi esercitavo quindi, e crescevo.
“Non è questione di emergere, ma di brillare”
Le dicevo.
“Tu lo sai di essere un sacrificio concesso nel tentativo di arginarmi?
Dea dell’Olimpo, sposa infelice. Auspicano che salverai il mondo”
“E cosa dovrei fare?”
“Chiedere qualcosa in cambio per il rischio...”
“Voglio che mio padre muoia”
“No, ecco... non mi pare il caso... Forse è meglio non ricordare chi sei e a cosa rinunci... Fai finta che questa sia la tua unica vita”
“Ma smettila!”
Lei era infatti un sacrificio offerto dall’Olimpo per arginare il moto che altrimenti avrebbe sconvolto il globo terrestre.
Generata dalla proscritta Dea Egoismo e dal reietto Paranoia, era nata Tragedia, la mia adorata stella, chiamata Romana tra le vie del mondo.
Costituiva un bisogno incolmabile, la sfida di ogni tempo, l’umano contro le forze a lui avverse.
Pensare che Egoismo come prima scelta avesse partorito una figlia pareva un ossimoro per letterati.
Credette invece, a suo tempo, che concedere il dono naturale da cui traggono le donne ammirazione e riverenza fosse una scelta corretta per i suoi vantaggi.
Si rese evidente, però, che non vi fosse stabilità nel misero paese scelto per lei dalla sorte. Un buon posto di lavoro si tramutava in disoccupazione al fluttuare dei tassi di cambio, e lei, essendo molto giovane, lo aveva ignorato.
Il marito, dal canto suo, che tornava la sera con un salario rispettabile in tasca, impiegò uno sbadiglio a divenire affiliato alla banda locale per non finire senza pane.
L’irrefrenabile bramosia l’aveva chiusa ben presto in un angolo.
"Perché questo, perché?"
Chiedeva al cielo adirata, tracotante come se ancora potesse tornare nella Patria dei Sommi.
Forse non ricordava, o magari fingeva, ma era stata cacciata perché vanitosa in eccesso. Aveva nello specifico scelto di percorrere l'unica via proibita agli Dei: esimersi dal gestire il proprio dono. Credeva addirittura che l'egoismo fosse tra i vizi esistenti, l'unico a non richiedere una deontologia. Ma sbagliava, e a causa di ciò venne espulsa.
Proseguì in seguito per spocchia nel commettere errori. Qualcuno dopotutto l'avrebbe salvata, credeva. Lei, discendente dell'Olimpo, impossibile che finisse tanto male; qualcosa sarebbe accaduto. Eppure, mancò di giungere il così atteso intervento.
E come mai? Si chiedeva.
"Come possibile un tanto funesto calare nel mondo, proprio a me che merito ogni cosa bella?"
Ferita senza ravvedimenti, maledisse quindi per la situazione più che sé stessa, la bambina, senza neppure tentare un ragionamento.
Spuntata nel ventre, il coniuge aveva perso l'impiego. Questa semplice coincidenza bastò per accendere nella mente della giovane un sospetto indelebile.
Il peggio divenne ben presto concreto desiderio, quando compreso che nulla l'avrebbe riportata dove pensava le spettasse un trono, fu certa di non poter vivere con simile fardello.
Neppure metà gravidanza attese, prima di esibire la fragilità dei vinti.
Stufa del marito e della sudicia casa nel palazzo sovietico ostile, scelse che avrebbe preferito tramutarsi in lapide anziché proseguire verso un futuro gonfio di simili torture.
Una notte, semplicemente, si appisolò sull’asfalto stradale auspicando di svegliarsi altrove.
“Salvatemi e portatemi via, in un’altra vita, in un’altra storia. Fatemi assaporare ogni esperienza possibile. Perché sono qui?”
Ma la vita scelse da sé, e un conducente responsabile frenò con largo anticipo.
Avrebbe esercitato molto potere se solo l'egoismo non fosse stato del tutto radicale in lei, tanto estremo da ipotecare ogni futuro per vincere in troppe attualità.
Quando scorse il divenire correre giù nel lavandino, trovò conforto nell’odio, il quale preservando l’ego liberava i nervi.
Comparve così al mondo la celebre Dea, capace di estinguere il mio dono. Nata d’inverno nel freddo est, non fece in tempo a piangere che Egoismo trasalì.
“Perché frigna?”
Chiese restituendo la bambina all’infermiera sporca di sangue, mentre il padre, confuso, ammirava lo spettacolo del creato.
Era un misero figlio del Cielo pure lui, abbandonato appena aperti gli occhi. Cresciuto senza carezze, divenne ingranaggio presso un’organizzazione criminale in un luogo tanto povero che la gente non aveva niente da farsi rubare.
Era un bastardo vero e proprio, con madre concubina di tutti gli Dei, sguarnita d’amore per i furfanti partoriti come caramelle da un distributore sulla spiaggia. Identico a ogni volta, si ripetè il fato anche dopo la sua nascita, e visto il dubbio su chi fosse il padre, spedirono il marmocchio fresco di parto giù in terra per non dover allevare un punto interrogativo proprio nel Sommo.
Divenne quindi adulto senza conoscere mai amore, se non quello provato da sé stesso nei confronti dell'esistenza. Era un uomo del tutto mai voluto, ignaro di come si potesse comunicare alcunché.
Muto di affetti ma pieno di ardori, era il concime ideale per sviluppare follia.
Far poi in modo che questi due scarti celesti si congiungessero fu una questione scelta dal caso. Capitarono alla stessa festa.
"Questi, eccoli!"
Aveva sussurrato a sé stesso Cupido, vedendoli. Da mesi si vociferava del pericolo che fra tanti umani, prima o poi ne spuntasse qualcuno in grado di portare scompiglio, anche se allora, nessuno osava immaginare come, sotto quale forma.
Così, il Dio dell'amore, con una sola idea in testa, ovvero di generare Dei terreni capaci di fronteggiare l'eventuale minaccia, univa, quando capitava, i rifiuti divini così che potessero generare una prole dotata di caratteristiche elevatissime, in grado di tener testa a qualsiasi prodigio. Ecco il caso della Gentile Romana, fiore acre della terra.
Tragedia era nata per essere incolmabile, programmata per serbare un dolore tanto oscuro nel cuore da estinguere persino la luce più forte. Doveva risultare un abisso che nessun genio avrebbe potuto colmare.
Ebbene sì, in questo bagno di errori venne lavata prima di incontrami. Non una vasca tiepida, quanto piuttosto un mare gelido portato dalla vita.
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Dopo il trasferimento e la separazione, che non racconterò per via del solito affastellarsi di avvenimenti tediosi e poco eccitanti, Egoismo divenne cameriera presso uno squisito ristorante in centro a Pozzuoli. Luogo di grigiori e frustrazioni, in cui la sventurata trovò sollievo nel collega giovane prodigo in regali.
Se ne invaghì per ovvie ragioni d’amor proprio, credendo persino di avvertire un pallido tepore verso qualcuno diverso da sé stessa. I miracoli possibili ai doni, si sa, sono vari, tanto da persuadere addirittura Egoismo sulla più improbabile delle questioni: poter sentire alcunché per altri senza lo scopo di mantenere una condizione favorevole.
Si allietò così un poco il tempo altrimenti ricco di soli svantaggi, prima che sempre al ristorante ebbe occasione di conoscere un noto commercialista venuto a cena con importanti clienti. Noto in provincia. Un “chi” buono a fare il proprio mestiere quanto bastava per ottenere pagamenti da commercianti di tessuti o imprenditori fuori norma. Egli più del soldo, amava i frivoli eccessi di una vita comune: una macchina appariscente, una parlata spavalda, qualche dettaglio riconoscibile a cui il salario permetteva di avere accesso.
I piccoli difetti non contavano, perché Egoismo vide in lui una possibilità di salvezza: togliersi dalla gravosa posizione di donna già madre, divorziata, corteggiata da un ragazzino feticista dei regali mentre lavorava in un ristorante florido solo in mancati guadagni.
L’uomo venuto per una cena lavorativa elargì qualche timido complimento fingendo tenerezza dagli occhi.
Fece intendere alla cameriera che portasse speranze, zucchero su una trappola per topi.
Scorsero entrambi in quell'attimo, possibilità e futuro. L’uno finse, e l’altra si sforzò.
Tornò quindi pochi giorni dopo per un semplice caffè, rivolgendosi a lei che sistemava i bicchieri.
“Hei, ciao... passavo di qui”
Come se trovarsi nei paraggi fosse sufficiente per giustificare l'entrata in un ristorane fuori orario.
Scapolo e schiava erano incastrati nei rispettivi sguardi ad un bancone.
Bastava che stessero insieme, che si trasferisse da lui per risparmiare un poco.
Egoismo si trovò così nuovamente dinnanzi al quesito:
"Il mio ventre richiesto è giusto che sia venduto in cambio del mantenimento?"
Era l’unico modo da lei intravvisto per arricchirsi.
Lavorando, mai sarebbe giunta pace; avrebbe faticato sino al giorno degli addii senza scorgere traguardi.
Infatti, l’unica via concreta in direzione di un flebile riscatto era per lei raggiungibile procreando inseminata da chiunque fosse nei pressi di sorgenti finanziarie.
A questo ambiva mettendo al mondo il primogenito di quell'uomo: far cessare i litigi con i conti correnti impossibili da vincere altrimenti.
Non saprei dire se solo questo ci fosse tra loro o anche altro.
Così tuttavia, la faccenda si compose ai miei occhi.
In seguito al secondo parto, poi, il commercialista di provincia stufo di ospitare in casa anche una ragazzina con gli ormoni scatenati, desiderosa di essere scoperta e di esplorare, la cacciò.
Veniva dichiarata colpevole delle insofferenze maturate tra i due, e non volendo compromettere la storia che li legava, agirono come dichiarato poco sopra. Avrebbe trovato sostentamento da sé, a diciannove anni, come si faceva tra i poveri squattrinati nell'est da cui proveniva.
“Cerca un uomo, procrea e fatti mantenere”
Pareva che dicessero. Venne allontanata come un insetto a cui si concede il favore di non essere ucciso.
Ogni tepore familiare svanì nel tempo di poche frasi.
Il Padre? Per nulla al mondo l'avrebbe aiutata.
Era sola, con un paio di valigie e qualche denaro in tasca per evitare il peggio sin dal primo istante.
Sognava al contrario di essere autonoma, lei, indipendente da qualsiasi uomo venuto a comprarla come una pesca al mercato.
Dovette così abbandonare il conservatorio per dedicarsi agli ordini di macchinari refrigeranti, iscriversi alla facoltà di economia e trovarsi una stanza umida nella speranza di non finire tutti i mesi a zero sul conto, o peggio, alla povertà.
A quella, bella com’era, si rifiutava di pensare, quasi il viso buono e magnifico le impedisse di intravvedere il peggio.
“La giovinezza almeno” sembrava dirle la vita. "La giovinezza almeno qualcosa porterà contro la sfortuna."
Era la sua unica fede, ripetuta la mattina albeggiante per colazione.
“La giovinezza almeno non mi tradirà”
Risuonava tra i suoi pensieri mentre camminava sul filo della vita, senza accorgersi di dove fosse.
Erano evidenti le ragioni della sua tristezza, come il perché di tanta sproporzionata mancanza che le occupava il seno con un magone. La persona giusta cercava dunque per arginare un guaio; non era sufficiente un sorriso imperfetto, o un piacersi incompleto.
Appariva ai miei occhi come una dea all’ombra del declino, la soluzione di tutti i rebus: una divoratrice cronica di splendori, insaziabile di carezze e teneri baci.
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“Solo il più puro e assoluto amore” credeva di meritare.
Cercava in pratica di risolversi nello splendore massimo, e quando il sentimento a tale visione la faceva correre vicino, s’incantava, pareva un avversario, ricordava lei la bellezza, e non io. In quelle situazioni il viso suo chiaro si mostrava anche pieno, scevro di manchevolezze, bilanciato in ardori e dolcezze; giusto.
Tragedia, nell’istante della sazietà, diveniva quiete, manifestazione di una compiuta speranza.
In quegli attimi, la fragilità della perfezione era però evidente. Simili proporzioni in viso resistevano per miracolo; dovevo fermarmi. Insistere avrebbe reso ogni misura una disarmonia, come il vetro ancora fuso che gonfiato da troppa aria si deforma prima di esplodere.
Era un fulmine quella luce proveniente dai suoi occhi, una sosta luminosa durante la tempesta che avrebbe condotto all’esondazione.
Così facendo, l’inseguirsi dei nostri pieni e vuoti non finiva mai.
“Certe volte sei tanto bello che mi sembra di morire guardandoti”
Diceva la figura divina.
“Quando sono con te, i pensieri brutti non possono esistere, mi rendi felice”
Stavamo tuttavia sbagliando. Ignoravamo il potere distruttivo del meraviglioso.
Conosciuto il prodigio, una vita senza di lui risultava intollerabile nonostante la sua perseveranza comportasse il decesso.
Purtroppo, lo splendore, per conservarsi tale senza retrocedere in malinconia, solo crescere poteva, svelandosi ogni volta maggiore rispetto all'attimo precedente.
I nostri incontri erano quindi un continuo sfidare le resistenze delle forme sue interiori.
Poi un giorno, come accadde al Cavallo, anche lei sparì travolta dall'eccesso.
Il pensiero le si bloccò nel ripetere esaltazioni di me. Cominciò ad affievolirsi, terminando con una frase scioccante:
"Sei perfetto"
E trasalì.
Da quando mancò, da quando la portarono via, scelsi di punire gli umani per l’insensatezza generale entro cui ero costretto a vivere; scatenai così sul mondo la crudeltà della bellezza nel modo più eccessivo.
Non potevo che uccidere.
Avendo imparato durante il tempo del nostro amore a saziare Tragedia, dialogando con interlocutori sprovvisti di simili abissi, risultavo un flash di piacere insopportabile.
Terminate le mie parole, ogni volta, almeno una vita si spegneva.
E non dipendeva dal volere mio, quanto dal fatto che non sapessi più esprimermi diversamente.
Provarono a incarcerarmi nella speranza di placare una strage. Peccato però che mancasse un giudice abile a udirmi senza finire steso, e abdicarono. Spararmi, allo stesso modo risultava difficile, perché prima di farlo desideravano assistere alla perfezione del mio parlare una volta ancora, ma in questa situazione appena fallire potevano.
Come sconfiggere a quel punto un uomo capace di irradiare stupore?
Non era concepibile, lo si doveva quindi amare.
Finii così per essere un circense sterminatore di vite.
L’umano desiderava perire colpito dal magnifico, e io purtroppo ne liberavo ad ogni fiato simile a bagliore di cometa. Sentendomi, trasalivano paghi, come nessun uomo era mai scomparso prima.
Ben presto, la sensazione che porgevo divenne tanto bramata che non si poteva sostenere di aver vissuto senza che la si fosse anche sperimentata.
In pratica, uccidevo svelando l'apice nell'attimo in cui si girava la via.
Cosa si poteva sognare se non di svanire provando il visibilio?
Io quello garantivo oltre ogni immaginazione.
In realtà, dopo l'iniziale furia, speravo che tutti si calmassero optando per uno svago differente, dal momento che non mi divertivo a ucciderli.
Inevitabili erano però gli assembramenti, visto che dovunque fossi, esprimersi era necessario, e qualsiasi modalità scegliessi, causavo fioriture e immediate fini.
Oscillando tra i bisogni miei e la richiesta di bellezza dilagante nei cuori umani, era una strage continua.
Infausto il dono della provvidenza!
Qualcuno mi voleva solo.
Essere accolto e lodato, desideravo io al contrario.
Costretto all’eterno rimpianto e alla smisurata soddisfazione di essermi palesato oltre ogni possibile foschia, splendevo in un mondo di nebbie; asciugavo i passanti dall’umida confusione umana.
Punizione o lode?
Medaglia o tortura?
Cura o pestilenza?
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Così trascorrevo le giornate a quel punto.
Ero venerato, godevo delle attenzioni riservate un tempo agli imperatori.
Dimoravo in vetta a un giaciglio circondato da vergini offerte in sacrificio, smaniose di perire udendo i canti del mio amore. E di più, erano interminabili le code di chi si voleva prostrare al cospetto del mio letto, pronto alla fuga di estasi.
Mi venivano riservate le delicatezze che più consideravo tali ad ogni istante.
Pareva che esistesse solo il desio di morire appagati, e che di me ci fosse un gran bisogno nel mondo.
I fatti però, ahimé, non potevo cambiare, tanto, che ormai confuso scelsi di abbandonarmi alla giostra degli avvenimenti per vedere cosa riservassero.
Potevo tutto. Ogni mio ordine era un dogma.
Se allora ciascuno desiderava perire sapendo cosa fosse il sublime, che mi rallegrassero tutt'al più, visto che di ucciderli mancava ogni intenzione. E anzi, mi dispiaceva, poveri esseri colpiti da follia.
Eravamo così, obbligati a esistere entrambi, io e loro, in quel modo.
“Almeno una simile costrizione sia vissuta nel grande teatro dell’abbondanza”
Era il mio pensiero al riguardo.
In un salone di morte non poteva mancare il vizio, e anzi, era indispensabile che ce ne fosse per ogni concepita fantasia. E così era. Per questo si udivano suoni di trapassi puliti, coperti da gemiti, perché sempre un buon sentimento regnava nel bacino della soddisfatta felicità.
Ordinai a quel punto che fossero eretti o ripristinati in ogni città i migliori palazzi, al centro dei quali vivevo di tanto in tanto e tra le cui stanze era massimo lo smarrimento.
In quei saloni vi risiedeva morte e piacere, una scomparsa tra baci e letizie. Erano luoghi grandiosi in cui tutti desideravano transitare, chi prima per mostrarsi impavido, chi dopo, curioso di verificare se qualche sapere potesse renderlo immune al fatale sbigottimento.
Nessuno restava però, senza importanza per età, livello d’istruzione, impiego o lingua.
Era questo a rendermi popolare, temuto, rispettato, a tal punto che ordinai il ripristino del Palazzo Reale di Caserta. Lo nominai sede dell'Altissimo, e Napoli divenne Capitale, luogo dove accogliere i pellegrini ansiosi di svanire al suon delle mie parole in luogo Sommo.
Potevo tutto, tranne che smettere.
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Sono sempre le domande a fornire risposte.
Muoiono tutti? Resto quindi solo?
Nella speranza che un lessico meno fatale possa farvi sapere di me, composi, perché solo correggendo lo scritto un poco sempre più fui in grado di ridurre il clamore pronunciato altrimenti di getto.
Usando quindi una scrittura colloquiale, neppure vagamente paragonabile al suono celestiale delle parole che uccidono, decisi di palesarmi.
Son certo che smettendo di esistere qualcosa migliorerà, portando l’umano a rigenerarsi.
Ce la farete!
Volevo qui rendervi partecipi dei fatti per come si posero.
Non fu un virus quello di cui ripetevano i giornali.
Era la bellezza a decimarvi.
Non preparati allo spettacolo del mondo, chiedevate una pausa da cui non vi sareste ripresi.
Mancava prontezza dinanzi a una simile dismisura; essa vi travolse, eravate pazzi, colpiti alla testa da magnificenza indomabile.
Restringere per afferrare, con le mani o tramite i pensieri. Quando per capire si è costretti a riassumere, non comparirà vittoria.
Scrissi a questo scopo, forse prima di uccidermi.
Sparendo, tuttavia, consumerete una vita senza bellezza. Appena un suo pallido e sfuocato miraggio, tramandato da muse e leggende, resterà come ricordo.
Da quel momento, l’umanità rinata, incontrerà splendore solo come sentito dire, concetto non afferrabile o comprensibile, perché mancante nella sua maestosa, insopportabile, completezza.
"Dove?"
"Come?"
"Cos'è?"
Saranno le vostre domande, in quanto mai conoscerete pieno incanto.
Templi eretti celebrando l’ignoto solo vedrete, se non per il vago ricordo qui passato, testimonianza di cosa siate e di cosa vogliate.
Siete alla ricerca di una morte felice, e io avrei potuto darvela.
In tutta sincerità, voglio dirvi cosa ho imparato: l’unica via degna di essere percorsa per svanire, è quella offerta dalla meraviglia.
Se ora non posso elevarvi con le mie reali parole, posso tuttavia consigliarvi di uccidere qualcuno per le frasi troppo belle che riuscirete a dirgli.
Quasi vi sembrerà di aver fatto un piacere a lui e al mondo, quasi vi sembrerà l’unica sensatezza fra tutto: esaurire l’umano servendosi del bello che va cercando, tramite il più completo e assoluto amore meritato solo per il fatto di esistere.
E ora godetevi la vostra vita.
Ma per favore, ricordatevi di me quando mi nominate.