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Su allori e luci

IL LIBRO DEI SOGNI 🎂

LA RAGION PERDUTA

1

Muovere un ciglio? Lo aveva scelto un risparmio di venti centesimi sul balsamo.

Decidevano i soldi, se un attimo parlavamo d’amore e quello dopo di ginestre.

Il volere delle ricchezze plasmava l’esistere umano e del mondo.

Meraviglioso, no? Ciascuna via intrapresa altrimenti sarebbe stata forgiata dall’erronea bramosia umana; un male assai peggiore.

Ora vi spiego perché.  

I sentimenti del soldo spostavano le capitali tra un fine settimana e l’altro.

Una verde banconota era sufficiente per convincere i giovani a innamorarsi, a fargli eseguire un gesto sgargiante nel tentativo di conquistare il momento, a trasformare l’attesa in un tocco di festa.

Cento euro e ci saremmo innamorati quaranta volte, ecco tutto; sedotti per un panino e qualche birra al giorno.

Il denaro muoveva bene i suoi poteri: "X" un innamoramento, settecento un sonetto clamoroso. La moneta ci portava al grandioso offrendo il massimo in cambio del solito velluto.

Uno stupore sempre in più veniva pagato la cifra maggiore, e noi per quello ci muovevamo, accondiscendenti ai voleri del sommo profeta; volevamo essere zucchero in un caffè.

Andava bene, pagato per risplendere, cifra massima riscuotibile ovunque.

In strada per esempio, cogliendo un gladiolo dal volto di una giunchiglia, o se no, dal preferito e vetusto geranio, appoggiato con cura sul terrazzo da mammà.

Passeggiavo dunque gaio lungo l’interminabile via degli anni, scomunicando lo spazio e le condizioni generali del corpo visto che già sentissi indolenzirsi l’andatura e i suoi muscoli. Ero dinnanzi a un affaticamento motorio al più semplice dei gesti: un disguido da pornostar, da scopritore malcapitato in un falò.

Mancando l'avvistamento di un continente, centrammo l’approdo su un misero scoglio, e viveri niente più.

Lande, un paio, cinte da un su e un giù, molto vento nel tenebroso cielo di ghiacci, spuma e sentimenti forti.

Veniva da chiedersi perché noi fossimo lì, a guardar la morte ogni secondo avvicinarsi senza capire come sarebbe giunta, se nel gelo accasciati o intenti a pescare sperando che finisse della fame la via.

Eravamo giocatori online, “trova una stella”, recitava il nome del beneamato passatempo.

Cercavamo possibilità nel tentativo di spingere verso il meglio la vita, che costasse pure quanto stabilito al mercato.

Nello specifico eravamo in fuga per frode fiscale. Ritenevamo ingiusto che un governo decidesse come e dove riguardo il denaro strappato con fatica al mondo.

Valuta accumulata in cambio di prodigi richiesti, al contrario, veniva imposto che stesse nei fortini del Re.

 

“Ragionate cari fiori fritti impanati. I faticati guadagni lasciarli al Re che porta in spalla un sacco di spese per le questioni sue, poi basterà un accidente qualsiasi e ordinerà un contributo seguendo ragioni strategiche rese condivisibili tramite l'inganno. Perderete tutto".

 

Questo contestavamo.

Il ragionamento di Stato al contrario era accettabile per chi gioiva udendo le direzioni collettive dai ministri presentate.

Solo così sarebbe risultato onesto sacrificare il proprio esistere in nome di un futuro promesso.

Ritenendo stolta la gridata speranza, io con loro, mi spostavo per non venir colpito dalla storia, la quale mena chi non si adatta, sempre.

Purtroppo infatti, al tempo della narrazione, era proibito ottimizzare la gestione dei propri guadagni, in quanto ai potenti faceva comodo così. A causa di ciò ero ritenuto un evasore, un reietto, un putrido infame.

Ognuno sembrava pronto ad arrabbiarsi con me.

Rispondevo:

 

“Come mai vi spaventa così un fine speculatore? Cerco il bene quanto voi, tuttavia, ritengo che il grandioso, luogo in cui fiorisce il giorno e la mattina profuma di fieno e di fichi, si trovi in direzione opposta”

 

“Allora perché sei qua?”

Domandavano.

 

“Cari sergenti, i soldi possono stare in molti luoghi, mentre io no; sto bene qui. Vi annoia la mobilità?”

 

La Corte dei Conti perseverava nel fondere le calcolatrici quando il segretario preposto osservava i documenti pallidi su cui appariva l’etichetta ove si vedeva scritto il mio nome.

Un quindici e un tre rimasti sul conto. Cosa pensavano, che fossi ricco perché il tempo pagava il massimo prestabilito?

 

“Gentili eminenti, sottraevo appunto ogni centesimo per muovermi via: dimostrare come la pensassi finanziando un mondo da cui sentirmi rappresentato”

Non ero un evasore fiscale, quanto un sognatore coraggioso, organizzato e pronto.

Ero un dissidente ricco di trucchi, la forma del peggior uomo mai visto.

Sapendoci mossi da bisogni soddisfatti da altri, compresero che togliendoci le basi del vivere noi fossimo soldatini in balia del terrore.

Una settimana di energia razionata usando come scusa il nemico lontano e qualsiasi sfogo insurrezionale veniva meno.

In seguito alle manganellate del freddo sarebbero giunte anche le pedate della notte, visto che l’ospedale non funzionasse più. Manifestavano in quattro e obbedivano tutti. I lacchè erano legittimati dal blasone convertito in miseria: la classe media una volta florida s'impoveriva, e insieme al denaro ancor più fuggiva il coraggio.

Tifare lo spogliatoio senza atleti rendeva quasi certa la delusione in gara. 

Per questo i rivoluzionari indispettiti dal poco rimasto scelsero che avrebbero posto un quesito al mondo.

 

“Il denaro lo volete fare o preferite che scappi?

Lasciate transitare il montepremi senza toccarlo?”

Un po' di fortuna e il denaro avrebbe smesso di comandarmi. Venti euro un amore, quattrocento uno squisito parlare, il montepremi lo avrei avuto di mio e sarei rispleso quando il momento avrei considerato opportuno.

Impossibile definire sbagliato il tentativo di un simile uomo, a meno che non vi si opponga un’ideologia per cui il giusto è uno e il resto banale errore.

Dissentire l’opinione di un sarto mentre misura il diametro della gamba, una spavalderia simile stavo compiendo secondo loro.

Contrariamente a quanto speravo invece, ritenevano che fossi malvagio.  

Pestando un suolo pagavi le tasse. Precetti normativi feudali erano cuciti su modernità galoppanti, le quali parevano invece sospinte oltre il vizio padronale se non ci fossero stati i cattivi reggenti.

Aggiungo agli atti che non sia questo un tentativo di arrecarmi pubblicità per le famose gesta finite male quel meriggio pasticcione.

Leggi nuove affievolivano impeto e afflato vitale di uomini in preda ai loro anni, lanciati nella savana bollente sul maculato manto gentile.

Morivano di stenti i predatori quando superati i cento il pass dei consumi infastidiva con le scosse.

Le antilopi fuggivano e gli affamati cacciatori gridavano di mancanze.

Essere sé stessi costava troppe risorse, l'energia scarseggiava.

I greggi tuttavia risultavano molto contenti di stare protetti a mangiare fogliame. Animali da banchetto fiorivano tranquilli.

A questo mi opponevo, al fatto che rimasti fossero appena erbivori nel mondo, placidi e sereni.

Si riducessero un poco.

 

“Per favore, via queste penurie di sussulti, consentiteci di ammazzare. Una noia lo spettacolo con tutti pascoli”

Ritenevo io. 

 

“Essendo magra l'esibizione chiediamo qualcosa per ridere un poco. Anzi, mangiamoli invece. 

O forse no, imponiamo loro di costruire opere, rendiamoli schiavi”

Proposero al contrario i governi. 

Distruggere i predatori naturali per finire sguatteri di Numi, bella scelta.

Acclamarono così il ritorno di leoni e iene, leopardi e cani del deserto. Avrebbero preferito cento volte sparuti animali rispetto alla congrega divina rappresentata nei poemi e nelle saghe storiche come sanguinaria sterminatrice di uomini. Purtroppo, l’ultimo avviso era svanito nel tempo ed erano in gran ritardo.

Un fuggiasco, quello sì; ecco cos'ero: un migrante in cerca di vita lontana da schiavitù imposta.

Facevo male?

2

Sul filo inconsistente del tempo giocavamo ai pony e agli struzzi, animali da cortile nel saloon del destino.

Una pantegana e un gabbiano ciondolavano dicendo "sì", avrebbero cambiato vita, non più il luminoso Grand Hotel o la fredda siepe. Avrebbero vagabondato nel retro della friggitoria o sulla statua posta dinnanzi alle sporche tubature.

Un immenso sogno e una grande prova di coraggio ritennero i compari e i prefetti. Gran fortuna il coraggio come dono. Conoscenti così facevano la storia.

Pantegane e gabbiani avrebbero suggerito ai figli le nette gesta degli avi in racconti pomeridiani sulle origini della stirpe. Nonno su, cugino là, un trambusto di ricordi mal collegati sarebbe stato il residuo della vita loro; resoconti di una specie da cortile, nulla più.

Le generazioni palpitavano costrette a farlo seguendo vie mostrate dall’altare. 

Nel mentre, io cercavo risposte.

Il denaro pagava poco per le solite storie, quantomeno mi divertivo ad essere mirabile, perché credetemi: il valore umano di ogni cosa lo da il suo prezzo.

Quanto vale aiutare gli altri? Moltissimo, in quanto costa il prezzo di sacrificare sé stessi.

Si cercava di valere molto compiendo gesta grandiose, pagate dal fato con la moneta dell’incanto, il più desiderabile fra i comandanti.

Una grande meraviglia guidava le gesta di uomini spediti e simpatici, schietti ministri di solitudini.

Svelare un segreto ai futuri maestri, una verità nuova non suddita, ecco la ragione dei miei respiri.

Una protesta senza motivo era la vita, un agitarsi di piedi fronteggiando lo stupore giunto tanto per fare, una lamentela borbottata desiderando un ridente giorno.

3

La novità non era mai gratis, ecco il motivo del nostro perpetuo cercare soldi per fare un “che”.

 

“La novità, vi prego, datemene una”

 

Essa prometteva stupori, un tiepido caldo, si pagava con la moneta della vita.

L'imperativo di quel periodo, oltre le novità per chi riusciva a permettersele, era frenare l’impoverimento collettivo prima che la rivolta montasse.

In seguito all’indigenza arrivata per inflazione, rappresentò speranza l'incantesimo del credito sociale: una serie di gettoni ricevuti sui telefoni in cambio di servigi. 

Significava porte che riconoscendoti non si aprivano perché etichettato come disobbediente. 

Il gettone verde per la salvaguardia dell'ambiente, quello giallo per il rispetto delle norme sanitarie, quello rosso per il versamento dei tributi. 

Gli sventurati meno abbienti, non potendo concedersi il lusso di rifiutare il credito perché sprovvisti di altra ricchezza, per evitare freddo e fame cedettero sé stessi in cambio di lasciapassare momentanei. I gettoni erano preziosissimi e da ognuno voluti, necessari per ricevere assistenza e permessi: entrare in un parco, andare al cinema, uscire dalla città. 

Senza la nuova moneta ricevuta in cambio di azioni precise, ciascuna vita sarebbe stata ridotta a quella di un esule perso nel vuoto, perché nulla era concesso a chi ne fosse sprovvisto.

Un’eccessiva autodeterminazione avrebbe consumato il pianeta fino a bruciarlo, una svista igienica e il rischio di pandemie sarebbe schizzato alle stelle; non pagando le tasse poi, si era una minaccia per la tenuta sociale.  

I governi erano gli unici a sapere come guarire il mondo, e soprattutto a poterlo fare. Per questo chiesero obbedienza in cambio di mantenimento e protezione.

Voleva il bene l’ente certificatore, salvare il mondo riducendo al minimo le privazioni di ognuno.

Il secolo delle rinunce e dei sacrifici. Deciso! Indetto da chi sfruttando in eccesso aveva reso il futuro un malessere.

 

“Salverai il mondo”

 

Suggerivano i giornali ai malcapitati creduloni nati nel giacimento di schiavi. 

La povertà era giunta sotto forma di storiella imbonitrice di animi.

Tra ispezioni e costi chi avrebbe più girovagato per sapere come si vivesse lontano, o per verificare se anche altrove fossero costretti a tanto? Solo i governi perdenti imponevano restrizioni?

Divenuta stretta la quotidianità, fiducia nei racconti tornò, e un decadimento parve la sorte comune.

Se incapaci di generare meraviglie pagate assai perché rare, come amori, sonetti o sinfonie, restava l'essere retribuiti accettando regole e divieti imposti. Il tutto per fare rarissime volte ciò che prima era quotidianità, come acquistare cibi freschi, andare in vacanza qualche giorno, bere un cocktail poggiati su un bancone. 

Resistere agli ordini invece significava che la propria vita perdesse valore, perché a nessuno piaceva il rischio di accogliere un simile uomo. Far sapere che un irregolare fosse transitato di lì avrebbe alimentato i sospetti, ed era meglio evitare.

Un grande pericolo restare fuori dal gioco e un terribile rischio entrarci.

4

Non capitammo sullo scoglio per caso, gentili amanti dei profumi.

Fuggimmo perché oltre ad evasori fiscali eravamo addirittura sprovvisti della valuta in questione, capace di introdurre o cacciare dal mondo civilizzato.

Salpammo dunque alla ricerca di un cosa dichiarato inesistente dai giornali, dai politici e dalle mamme indaffarate.

Impossibile spiegare ai più che si sbagliassero. Con mia madre avevo persino tentato. Tuttavia, iniziando il ragionamento venni travolto da una sicurezza agghiacciante: non avrebbe mai capito.

Cominciai infatti a descriverle alcune piccole verità economiche in grado di provare come il sistema di cui tanto si fidava la stesse impoverendo e non fosse destinato a nulla se non al fallimento. Eppure, di fronte al più semplice degli inizi, ci fu un brutale arresto. 

Se lei era così, figuratevi gli altri. 

 

"I prezzi aumentano del dieci e le case del cinque"

 

Mia madre festeggiava per l'aumento nel valore delle case.

Suggeriva di considerare il mondo positivamente, non che fosse stupida.

Io invece, la ritenevo poco intelligente perché ottimista. Un'antipatia nata per divergenti opinioni. Tuttavia, era mia madre. Non semplice liquidare amore materno con accuse di ritardo.

Cercavo di redimerla, sostenendo che se l'inflazione fosse del dieci mentre il prezzo di casa sua aumentava del cinque, lei perdeva. Si arrabbiava e mi accusava di esagerare.

 

“Insegni scienze o rubacchi al mercato? I numeri son numeri”

Replicavo io invece.

 

“Pensi sempre al denaro te”

 

“Io, i soldi, ma sei matta? Chiedo solo in caso mancassero chi mi farebbe star bene, il sorriso del vicino senza latte?”

 

“Ma vedi che sei tragico!”

 

Cosa potevo farci, mischiare matematica e sentimenti era l'errore del secolo, in Europa almeno.

Mi sentivo inerme di fronte a un simile putiferio mentale. 

Lei invece si aspettava da me affetto.

Che affermassi: "Ti voglio bene".

Eppure io come potevo spingermi fino ad una simile buffonata? 

Ero un generale in tenuta da meraviglie, sprovvisto del tempo necessario per infarinare scaloppine e preparare il brodo rendendo contenta una donna.

Riconquistare l'onore giaceva come massima priorità nell'animo, il resto poltriva nei pressi di un bidone. 

Forse lo stipendio governativo le aveva dato alla testa. Non ricordava come gli Stati cambiassero sempre, per non dire i confini? Un territorio non restava un medesimo Stato per più di cento anni.

Eppure, era cresciuta pensando che l'Italia fosse una cosa e basta, e non che la Francia fosse l'Italia, l'Italia gli altri paesi e viceversa per tutti.

Credeva che il tempo non avrebbe cambiato la geografia né le zone di benessere.

incontrando una mente del genere cosa potevo affermare?

Che le fossi grato per il tempo dedicatomi.

Poggiati a simili basi, lasciare che un certificato sotto forma di credito digitale fosse anteposto a ciascuna libertà parve un gran guadagno. Importava poco che il credito si deteriorasse nel tempo e che per essere in regola un qualcosa lo si dovesse sempre fare: rinnovo domestico, trattamento sanitario, auto nuova meno inquinante. Mantenersi in regola con il più basso livello di valuta necessario significava obbedire, altrimenti non rispettata la soglia si risultava esclusi.

Per mia madre era sacrosanto purché si cercasse il bene. A sentir lei, mancando obbedienza la natura sarebbe scomparsa, sconosciute pandemie avrebbero cancellato l'umanità e in mancanza di altissime tasse avremmo osservato ogni benessere svanire. 

Dimenticava che pistole alle tempie prima mancassero, e che da nessuna parte stesse scritto: "Proprio così dovete proseguire".

 

“Salvare il mondo, solo ciascuno può farlo obbedendo al governo che sa”

 

“Va bene!”

5

Una tonica farfalla riposava sul cornicione. Le sue ali tese e larghe, nere e rosse intramezzate dal bianco, prendevano il sole unite al corpo longilineo. 

Era una luminosa giornata sul finire di ottobre: splendida occasione per sognare il ritorno del caldo. 

Al caro insetto poco restava da vivere, ma come poteva saperlo? Cercava dunque il massimo ignorando il destino. Stesa e illuminata da luce netta, fu avvicinata da un calabrone, il quale si approssimò per capire se magari potesse combinare un “che”.

Subito rinvigorita dal pericolo volò via. Prese l’aria mostrando abilità nel volteggiare con precisione e asprezza. Caratteristica inattesa per una farfalla, tanto, che addirittura tornò a punire il calabrone intrufolatosi nel suo momento di riposo, sorprendendolo. Un paio di curve fecero insieme nel cielo, l’elegante farfalla e l'obeso calabrone.

“Meglio andare”

 

Il piccolo cervello dell'insetto paffuto suggerì che evitare drammi fosse un buon traguardo.

Volteggiarono quindi insieme affaticandosi tra balconi e punte di rigogliosi oleandri, distanziandosi.

Su le foglie sparse riposavano intanto api e mosche indaffarate nei lavori di quando si posano: pulire le ali, tirarsi i baffi, accreditare il ciuffo, e, sempre, palpitare nel sedere; un gonfiarsi di spiriti all’estremo, verso pungiglioni o peletti.

Nello stesso momento, alcuni tardivi fiori spuntavano da piante grasse cresciute nei vasi. Erano distesi al mondo e sfamavano voraci api prima del gelo.

In quel momento il cielo era nascosto dietro una coperta sottile di nubi, mentre nella stanza si ballava sognando.

Reclamavamo un diritto: fantasticare, avere il tempo per immaginare un futuro.

Stavo danzando con lei, il mio fioricello, durante un pomeriggio inoltrato, sbirciando dalla finestra.

Le sue guance erano sorte da lacrime: levigate, dolci, preziose, e, creatrici di morbidezza. M'entusiasmavano. Limate da sofferenze, risultavano al tatto un’attrazione irresistibile. Baciavo le gote sue di pesca mirandola con ardore.

Del possibile arcigno che può diventare un viso, le mancate fortune l’avevano resa un velluto, delicata come un polline, intrigante come la corolla del sole.

Nel mezzo di una fuga illusoria, cominciata per raggiungere una libertà assente, cercavamo la perfezione in camera da letto, guardandoci, sperimentando pulite gesta. 

Ci aspettavano mondi nuovi.

Procedevamo verso il CryptoSpazio attraversando un mare ignoto; poi via, giunti, saremmo vissuti nel folle domani.

Indagavamo il futuro per capire se resistere fosse corretto. Cercavamo lavoro in pratica; desideravamo contribuire alla nascita di un nuovo sistema economico ove non saremmo stati schiavi ma esecutori di compiti fondamentali. Da miserabili spettatori auspicavamo di trasformaci in reggenti di fantasie inarrestabili.

Persino faceva cambiare il senso del vivere l'esser parte di qualcosa.

 

“Caro esploratore, caro esploratore”

 

Avrei potuto dire a un collega. L'obiettivo da noi perseguito era scovare continenti e cercare bellezze tali da ripagare l'azzardo e la fatica di quel viaggio.

Non meno che praterie, fiumi, giacimenti di rubini e amori ci avrebbero placati.

Da marinaio a Duca del Sussex; il tempo di una traversata e la vita sarebbe potuta cambiare.

Com'eravamo ormai stanchi però di navigare senza riscontro alcuno, se non qualche vaga esaltazione presto sedata. 

Eppure, un attimo prima che gli animi si spegnessero e i corpi giacessero al macero della luce, sentimmo lo stridere degli uccelli.

 

“Non sarà il caldo ad essiccarci! Non sarà lo scoglio a infrangere le nostre speranze. Non sarà la tempesta a irrompere nella stiva, ma gli uccelli a spolparci. Attenzione!”

 

“Generale, si pentirebbe se mollasse ora”

 

“I volatili gracchiano in prossimità di una riva. Si ridesti e cerchiamo approdo”

 

Giunti innanzi alla resa, si evidenziò un lampo di speranza imprevisto, un colpo di Judo per strada. Gigli sodi e splendenti erano comparsi rimpiazzando un brillio anticipatore di fini.

A rendere credibili le immagini furono proprio i boccioli, grassi, lunghi, pieni di voglie.

Impossibile che fossero dentro la tetra via che ci toglieva dal mondo.

"Nobili fiori sul pendio!"

 

Tra un “complimenti” e un “ma pensa un po'”, rigogliosa costa spiccava irta di monti. 

Ci attendeva minacciosa una coperta verde di alberi spessi.

Stremati e stanchi, avremmo a quel punto compiuto qualsiasi gesto pur di rendere fecondo un simile rischio.

Su fucili, accette e coltelli, costruimmo una via fuggendo dal mare in cerca di un chissà.

Normale aspettarsi ristoro dopo uno sforzo simile. 

Le fatiche di esploratori si ricompensavano con regni e domini. Esattamente quanto stavamo cercando nella fuga: non un caseggiato e quattro mucche, ma fiumi, laghi, colline, alpeggi, scogliere e pianure. Lo spazio necessario per esprimere l'umano desiderio di esistere, imprimere la nostra anima sul mondo.

Cercavamo imperi grazie ai quali saremmo divenuti voci ascoltate e rilevanti. Non avremmo più accettato di essere rabboniti tramite frasi e scherzetti.

Ce l'eravamo passata così, in mezzo al mare, pregando di arrivare un giorno chissà in India a comprare spezie.

Ogni mattina l’infinita distesa era parsa sempre più tingersi di oriente, fino a condurci al sogno di essere noi stessi la meta del viaggio: ritrovarci nella fantasia, intravvedere chi fossimo stati e cosa avessimo lasciato dietro e davanti a noi.

 

“Nulla ancora, ma se solo arriveremo, allora sarò...”

 

Una volta giunti, quindi, appena sentita la morte unirsi e poi allontanarsi, dopo aver respirato sul naso un disgustoso gelido tanfo, si bramava il riscatto massimo.

L'evidenza di trovarsi in un luogo sconosciuto mai recensito su mappa contrasse i nostri cuori ribelli in una stretta d'euforia.

Assai rilevante era la scoperta, al pari di chi fornì il nome ad un continente. 

Così l’idea di riscatto ritengo sia chiara.

Non di meno, noi scoprimmo un mondo forse ancora più ampio, florido in qualsiasi novità, ove svanimmo  fuggendo all’oblio.  

6

Sogni e ricchezze ci muovevano come sempre era accaduto. Per null’altro si proferiva un sospiro.

Eccetto la legge, cattiva maestra, la quale tentava di ergere i propri bisogni a unico faro usando tutto e tutti per soddisfarli.

Un normale obiettivo di crescita e fioritura personale risultava follia.

Mossi da soldi e inorgogliti da sogni filavamo nel desiderio, spazio delle possibilità. Tanto liberi addirittura da popolare terre di preferite cose. “Creatori”, ci chiamavamo tra noi.

Disegnatori di prospettive, ispiratori di scogliere, spiagge e sbadigli sereni.

Si poteva affrescare un’esistenza da capo. Per questo era impossibile evitare che le mani finissero nella poltiglia lucente se noi bambini eravamo, curiosi e rimbambiti, i quali senza temere un pericolo gattonavano verso lo scivolo insidioso e altissimo.

Saremmo approdati dove? Ancora in giardino o un altro luogo?

Il percorso tanto avvincente lasciava presagire brividi. Sicuri eravamo: “altrove” era la risposta.

Invece la realtà si mostrava più folle dei sogni.

Finito il tracciato saremmo apparsi ancora in giardino, il luogo di prima; nulla cambiato, ma almeno c’era stato un brivido.

 

“Dove sono le scalette che faccio un altro giro?”

 

Perdurava in noi la vaga speranza di cancellare noia e paura entro cui vivevamo da sempre.

Purtroppo no, si poteva mutare ma non troppo, per tempo ridotto.

In seguito alla scoperta e alla conquista saremmo divenuti i cattivi tiranni, i proprietari che affittano e dettano regole.

La concreta differenza presente nel CryptoSpazio, tuttavia, era che ciascuno potesse entrare. 

Non solo un regno o due vantavano possedimenti e profitti, quanto milioni di persone, le quali senza costrizioni erano migrate.

Almeno sarebbe stato ampio il nostro numero. Ci sarebbe stata profonda distribuzione e sarebbe mancato il potere a cui ogni limite è tolto. Una bella garanzia contro enormi tracolli e ingiuste dittature.

Non capitali ma piccoli villaggi saremmo stati all'inizio, punti luminosi connessi tra oscuri territori depressi, ripari emersi nella trama disfatta di antiche potenze.

Avremmo così svelato ancora una volta come non esista libertà eterna, ma che piuttosto, appena ce ne sia,  qualcuno vi corra ed essa svanisca presa e nascosta.   

Occupato il meglio sarebbero cominciate battaglie per rubare il terreno ai più deboli. 

Aiutati dal resto che giunto in ritardo avrebbe sperato di cavarci qualcosa nonostante la svista, sarebbero cominciate campagne e razzie.  

 

“A obbedire siam pronti”

 

Fintanto che possibilità avremmo creato per gli entranti, un Impero senza centro sarebbe cresciuto a discapito del nemico, il quale, perso tra fogli e studi televisivi obsoleti, costruiva narrazioni passate in secondo piano almeno nei giorni di chi indipendente più non temeva follie di governi indebitati.

Il denaro plasmava le nostre azioni, eppure, senza capacità di scegliere e acconsentire, tutto sarebbe svanito in miraggio.

In pratica, autorizzavamo spostamenti monetari, i quali avrebbero comandato vite altrui nell'auspicio di un finale vantaggio per noi. Si collocavano risparmi affinché qualcuno raggiungesse i propri obiettivi, e tramite questi arricchirsi.

Cosa riguardassero le mete, risponderei più avanti. Basti sapere che qualsiasi genere di sogno fosse ben accetto.

L'obiettivo tanto, era sempre lo stesso: il piacere, il quale si misurava in volumi d’acquisto. Ogni opera magistrale poteva valere per noi più di un’industria, perché rarissima ispiratrice di pomeriggi splendidi. Giocavamo così a scompigliare il destino. 

La cima dell’uomo: il brivido, valutato il doppio dei social network e quattro volte la filiera del latte.

Ambizioni fantasiose per bambini sulla vetta di uno scivolo, sempre lo stesso nel giardino di casa.

Sorridevo, pensando, perché nonostante tutto ci saremmo trovati comunque a gestire lamentele gracchiate dai lenti.

Tutto era ingiusto per loro, visto che fossero fiacchi.

Persino ragione quasi gli concedevo.

Impossibilitati poiché lasciati soli dal lume, erano fuggiti con fiamme a ridosso insieme sbraitando.

 

“Non è colpa nostra, fateci entrare, ci hanno fregati”

 

Dicevano cominciando a farsi i dispetti.

Qualche linguaccia, un peto di bocca, gomme schiacciate tra i denti, esclamazioni dialettali e gesticolamenti.

Li si ammetteva nel mondo imponendo regole concordate per il bene del sistema.

 

“Eh no! Come faccio senza tale competenza o l’altra? Mantenetemi!”

 

Le regole sarebbero durate poco.

 

“Sono meglio delle precedenti, di cosa vi lamentate?”

 

Gli uni dalla memoria corta riguardo il male passato e gli altri avendo trovato luogo protetto fuggiti a un rischio, avrebbero cominciato a battere i piedi senza intenzione di spostarsi. Una caccia e un'accusa verso i privilegi altrui avrebbero iniziato. Appena salvati e già lamentosi; noiosa umanità.

 

“E’ un mondo senza scuse. Ci sono possibilità concrete ma nessuno porgerle può, perché tanto belle sono le prospettive che, chiunque arrivi, seppur mosso da spirito eccelso poi si convince di meritarle e via è perduto, le tiene”

O ancora avrei proseguito. 

 

“Geniale Primario, gli attimi non vengono resi, così neppure le possibilità. Ogni lamento è un meno che avrà. Manca la Corte d’Appello in mare aperto, non sia briciola d’un azzardo”

7

Il giorno seguente piovve.

Molte incertezze coprirono il cielo e la vita si tinse di “chissà chissà”.

Le foglie di fico annuivano meste sotto la scrosciante perturbazione, mentre un vento materno le coccolava. 

Solo i gabbiani restavano bazzicando l’aere con piglio attento in cerca di opportunità: un topo in fuga da un allagamento imprevisto, un uomo sventurato munito di ombrello che incerto assaggiava un tramezzino gesticolando sul canale.

Lo spumeggiare verdastro del vorace mare insinuatosi tra le case, curioso di sentirci e rimanere prossimo alle nostre angosce durante la notte, tratteggiava nel disegno circostante un mattino.

Planava fino al pelo dell’acqua il gabbiano dopo aver soffiato il dileggio al maldestro passante, risalendo poi, come una virgola in mezzo al cielo, dando l’opportunità al tempo di riprendersi in seguito a uno stupefacente spettacolo apparso.

La dolce pioggia era una festività per qualche specie di volatile, tra cui i gabbiani.

Nobili osservatori, mantenevano il severo volo discreto solo bilanciando il ventaglio in coda.

I merli raminghi invece, si braccavano incolpandosi di qualcosa, schegge come spari, un qui e un lì poi non c’erano più.

Possibile che avessi davvero notato l’arancione del becco? Un vociare affermava “sì”, lo ricordavo.

Certo li vidi, sfuggenti meteore affilate, arancio di becchi persi in neri frementi di piume compatte, sfuggiti nel fico e tornati mai su, persi fra terra e muretti. Forse a riposare coperti dal gentile gazebo di foglie erano andati. Oppure volati chissà in quale universo accessibile ai merli senza biglietti o documenti, contributi o fiduce elettorali.

Sereni e spediti viaggiatori di istanze e galassie trepidavano guardandosi intorno scattanti.

I lucenti e setosi volatili, sotto leggiadra pioggia mattutina, cinguettavano acutissimi mentre le foglie preparavano la recita dell’anno impazienti di svelare il carattere tenuto segreto in estate.

 

"Come si imbastisce un trapasso?"

Chiedeva una pianta.

"Pallido tramonto o guizzo di spuma?"

Il fico cedeva in un giallo, banale quanto pulito, senza eccedere in arcobaleni fantasiosi.

Le foglie della vite americana invece, discrete nel tumulto d’estate, agguantavano un finale riscatto nei confronti di un'esistenza ombreggiata al muro. Rosso e arancione portava in loro il soffocamento, come se mostrassero una maggior pena di svanire. Ricche in saluti e addii, furiose per aver capito a un passo dagli "arrivederci" come il tempo, ahimè, scarseggi, esplodevano adirate incendiandosi. Il muro appariva così un fuoco lucidato da rilassata pioggia.

Fu allora che giunse un'intuizione malvagia, la quale mi conquistò, e nulla fu mai più simile a prima. 

Senza ulteriori propagini, in mente comparve una frase: 

  

“Il mondo l’ho inventato io”

Le palpitanti foglie: un frutto del mio cervello. Da lì in effetti venivano.

Era lui a creare per me, loro, i suoni, le sensazioni, ciascuna idea.

Nel dubbio di ritenere quanto affermato un falso, si rifletta dunque senza cervello cosa esista oltre l’impensabile.

Se risposta è “sì”, allora dimoro nel giusto.

Non uno, ma tutto, creavo senza fatica, scaturito da un cosa impossibile a dirsi. Il mondo ero io.

Rimasi così pensoso un attimo, colpito da rigida esitazione. 

C'era da arrabbiarsi quindi. Male veniva il risultato. Se il mondo calava, ero io a essere moscio. L'esistere appariva infatti scelto dal cranio: una composizione cerebrale* era la così detta "realtà". Ma reale per chi, se non per il sottoscritto?

La vita apparsa consisteva nella scelta di un organo; disposizione interpretativa, nulla più.

In base a quanto detto, ero solo un viandante attraverso i dettagli di me stesso. 

Deglutire un gelato significava assaggiarsi. Tutto un medesimo, persino montagne e fiumi, sconosciuti colossi dell'Io, pericolosi e lontani.

Te?

Il mare?

Il dolore? 

I manifestanti? Neanche a dirlo. 

Erano tutte creazioni apparse nel cervello, da lui create insindacabilmente. 

Il mondo per quello funzionava poco. Ero dissestato, vedevo male, sentivo timori.

Classico problema per cui al tempo nulla era più utile di un ingegnere informatico.

Bastava utilizzare troppo il circuito elettronico e la memoria subiva inciampi, rallentava i processi rendendo ogni traversata un naufragio.

Il tecnico informatico su apparecchi già visti spegneva il processore, puliva i ricordi da residui defunti, i quali tanto infastidivano il flusso, e riavviava il tutto.

Difficile per un uomo al contrario sistemare in corsa la propria RAM.

Sostituire il mondo davanti ai nostri occhi: di quello ci occupavamo noi esploratori di terre fatate.

Cambiavamo il significato alla parola "denaro".

Da quel momento in avanti al termine "moneta" avremmo associato un senso più ampio, il quale coincideva con noi. Era il bisogno di denaro a far muovere il cervello, e visto che per vivere fosse essenziale, l'uomo pur di averne avrebbe aggiustato il modo d’intendere la vita.

Avremmo letto diversamente i segnali del creato per trovare in tutto un economico valore da poter sfruttare, sapendo, che ogni cosa avrebbe visto in noi la medesima stregua: un aiuto per migliorare, o nulla.

 

“Se esisti servi a qualcuno”

 

Diceva un cartellone contro la depressione infantile.

Cambiando significato alla parola: “soldo”, avremmo regalato un bel dono a tutti. 

Ma come avrei amministrato il problema nel pensiero?

Parti di me infatti non capivano. Si accapigliavano ancora in baruffe per questioni varie, senza intuire che i dubbi fossero loro stessi, e che proprio questi componessero un unico immenso io, mosso dai bilanci. 

Esistevo così, sconfinato e senza controllo, osservabile da spregiudicate angolazioni.

Ahimè, questo pensai osservando le foglie, senza più riuscire a tornare indietro. 

*Il nostro modo di immaginare il mondo è frutto di un processo che attribuisce significati a segni che incontriamo. All'esterno, non ci sono rumori, ma vibrazioni che il nostro cervello processa. Lo stesso vale per la vista: l'occhio riceve segnali di variazioni luminose che il cervello traduce in colori e forme. Anche per il pensiero accade la stessa cosa. Nel cervello non esistono parole o frasi, emozioni, ma impulsi elettrici che trasportano informazioni, i quali vengono interpretati e trasformati in parole e idee, sentimenti. Percepiamo la coscienza solo dopo che è stata significata, proprio come percepiamo il vento o vediamo un albero. L'intelletto, come tutto il resto, rimane sconosciuto, rivelandosi solo attraverso i filtri della significazione cerebrale. Una foglia, con la sua forma e densità, rappresenta il significato emergente da un processo di decodifica intellettuale. Sebbene la sua immagine appaia nella mente, non possiamo conoscere gli elementi al di fuori di essa, ma solo ciò che il cervello percepisce. L'esterno, il simbolo originario, sia fisico che intellettuale/emozionale, resta sconosciuto.

Il cervello di fatto, rappresenta una barriera tra noi e la verità, rendendola inaccessibile, divenendo così il nostro Dio creatore onnipotente. Il cervello e' come se fosse una puntina che legge un disco facendolo suonare nella nostra coscienza. Noi conosciamo la sinfonia della realtà non potendo nemmeno immaginare che venga suonata da uno strumento, il quale interpreta qualcosa di scritto in una traccia di cui non conosciamo l'interezza. 

8

“Cara esistenza, possibile che io solo mi guardi?

La vita consiste in un dolce sentire, e del concreto chi sa? Ogni cosa è dunque un racconto soggiunto, lettura destinata all'oblio, un suggerito lieve suonare, di cui nulla conoscerò mentre avvinghia?"

E siccome io non ero a controllare lo scorrere dell’apparire, vi confesso che il capitano del convoglio fosse uno strano sergente, poco affidabile a volte, capace di mutare le carte come stagioni. Salotto trasformato in barchetta, divano, camicetta, e i minuti in sussulti.  

Un segreto equilibrio reggeva lo scorrere del mondo.

Possibile dunque che gli eventi fossero solo miraggi?

La stretta nei porti cinesi, era giornale, il quale esisteva dentro creato.

L'estraneo risultava non verificabile; impossibile che esistesse come osservato, perché anche il più truce sentire era organizzato dal centro congressi cerebrale.

Stanchi della messa in scena così lontana da noi, decidemmo che a scegliere basta non fosse più il cervello, ma il denaro, di cui l'inventore ritenevamo la nostra medesima specie. 

Compreso il mistero onnisciente, volevamo che il tutto almeno si mostrasse generato da una creazione tipica della specie a cui ritenevamo di appartenere: l’umano.

Che piacevole trovata la storia secolare. Crociate e convinzioni religiose pertinenti, una coerente epopea umana, credibile visione di fenomeni atmosferici e universali, parentele e sentimenti.

Un regista strepitoso il cervello, seduttore perfetto, incredibile mostro e rivenditore.

Finendo poi a dire chissà cosa sia il cervello, se anche la sua immagine è costruita e apparsa.

Un dubbio inesplicabile ero io stesso? Possibile che un'impenetrabile domanda restasse per noi ciò che eravamo?

Quesito insolito da porsi un grigio lunedì pomeriggio in cui giacevo assorto alla finestra.

Un dibattito e una vetrata, uno spuntare di bambine mano nella mano tornando a casa. Tanto creavo.

A destra comparivano intonate e lucide magnolie senza più fiori, mentre prossimo alle case s'ergeva un alto cespuglio di Osmanto, aulente in un dolce ricordo estivo, memoria di piacevoli attimi.

Passeggiavamo per il mondo ignari di cosa fossimo, ritenendoci carne attaccata su ossa, finiti con la punta di un dito o al termine di un pensiero limitato, e non che tutto il circondario fossimo allo stesso modo.

Il dilemma più grande era ciascuno. Io solo? O son tutti?

Risposta non c’era oltre il “sì”.

 

“Io solo e son tutti”

 

Altrimenti avremmo ritenuto falso il nostro esserci, ma questo mancava tra le possibilità.

Dunque, per non sparire dal momento che c’ero, mi riconobbi vista di un’esplosione rapida a svanire.

Narratore al citofono.

Consegnavo un messaggio alla memoria che ignoto produce*.

Sì, perché il sembrare apparso indicava i fatti che sarebbero divenuti ricordi, attraverso cui avrei interpretato il futuro ancora*. 

Un dolore appariva ad esempio, e subito avrei ricordato il male associato a tal gesto non ripetendolo più. 

La sensibilità che eravamo passava informazioni da archiviare. Il fine creatore poi, le avrebbe usate a piacimento. 

In un attimo la concezione dell'uomo avuta fino a quel punto parve ridicola. Coincideva con il minimo elevato a massimo appena perché immediato. Eppure, oltre persino saremmo riusciti a guardare. Non solo marcire in palestra o cucinare spaghetti, anche ritirare maree, scuotere fronde, girare luci e stelle a tempo di fianchi.

Taxi: io che mi porto a casa. Un delirio anche solo vestirsi.

Era il medesimo sottoscritto che desiderava il mondo addosso, e non camminava.

Se pareva che la vita offrisse regolarità nell’accadere, era per esempio una convinzione, perché leggevamo il soffio universale seguendo certe regole. Stravolgendo i significati provenienti della lettura, tuttavia, ogni elemento sarebbe potuto cambiare.

Latitava energia, ecco la ragione per cui ci trovassimo arenati in un bilanciamento delle forze considerato assoluto e prigione. Obbligare l'equilibrio e uscirne, d'altro canto, sarebbe stata la mossa del folle, perché avrebbe suscitato un senso di smarrimento assai pericoloso. 

Si trattava appena di forze mancanti! Il mondo, altrimenti, sarebbe stato diverso. 

Rassicurati dalla Cappella Sistina, riscaldati da formule, protetti da righelli e prospettive, ritenevamo poco saggio far diventare il cerchio, ad esempio, un soggetto di luce drastica sostituito alla concezione ben dimostrata di raggio e diametro. 

In accordo con la novità, se no, avremmo dovuto razionalizzare l’intero sapere, oppure, un aspro rifiuto ci sarebbe giunto dinnanzi, come sperimenti ora.

Era solo invece mancanza di spirito, per cui risultava impossibile spostare i significati e bramare un nuovo contrappeso.

Corpo di ballerine succinte che si esprime lungo un canale in provocanti balzelli. Difficile farlo rientrare in un disegno realistico, perché regole varie l’avrebbero subito impedito.

Increduli di fronte a piroette stradali, il quesito su quanto fosse praticabile la rivoluzione con la forza del pensiero restava irrisolto.

Pensavamo cose semplici, le più ovvie in fin dei conti:

 

“Che teneri i miei fratelli. Quando escono da scuola e correndo gridano: “Romana, Romana”, mi commuovo. Se potessero mi aiuterebbero loro”

 

Con gli occhi gelidi e blu, immaginava, ascoltava ricordi e udiva conclusioni.

A lei, tutto si manifestava in sembianze differenti rispetto al mio. Pur sempre un me stesso, ma straniero, di cui avevo bisogno per conoscermi, come di ogni cosa.

Affetto e amore, famiglia e sentimenti, una forma di antichità sempre moderna.

Esisteva persino quel sentiero di realtà, universo sotteso e ingannatore.

Suo fratello, proseguiva, un bambino con gli occhi chiari e la voce simpatica.

 

“Romana, mi scappa la pipì”

 

La faceva nei pantaloni se non lo aiutavano subito.

Frenetico bambino.

*Il significato che il cervello attribuisce ad ogni elemento incontrato, è qualcosa che lui già possiede in sé, di cui ha memoria. Quando interpreta ad esempio le vibrazioni che diventano poi un suono, questo processo avviene grazie a informazioni conservate nella memoria genetica di ciascuno di noi. Qualunque cosa compaia nella nostra esperienza vivente è prima di tutto una forma di ricordo, qualcosa che è già dentro di noi, recuperato e composto al bisogno. Quindi il presente è una composizione di ricordi che appare; l'esperienza del vissuto è un dispiegarsi di memoria sopra simboli incontrati. Mi spingerei addirittura ad affermare che l'universo, già sia dentro di noi, come ricordo, come eredità, in quanto tutto quello che noi percepiamo già lo abbiamo dentro. Sembra quasi che la componente base dell'esistenza nella sua interezza sia una qualche forma di memoria a cui è possibile accedere, anche se oltre non so dire. 

In tal senso, per concludere, la nostra esperienza serve a fornire alla memoria i tasselli che verranno ricordati, arricchendo ciò che è già stato stabilito dalle reminiscenze che possediamo, siano esse genetiche o acquisite. La nostra battaglia si limita a contribuire ai significati utilizzati dalla memoria per generare l’affresco dell’esistenza.

9

“Ho parlato con mia Nonna”

 

“Del piano”

 

“Ha detto no”

 

“Per diversi motivi”

 

“Tra 5 min ti chiamo”

 

“Non era male aver sognato che qualcosa potesse cambiare”

 

Com’ero dispiaciuto, povera Romana.

Un attimo avevo persino creduto che un intervento di classe avrebbe sortito qualche effetto nella landa di me stesso, avara e senza bontà.

Dunque, assente la misericordia, anche la più minuta pepita veniva schiacciata dal tempo e finiva dimenticata.

 

“Questa volta no”

Sorse un moto di semplici parole. 

 

“Se posso aiutarti e non lo faccio mi sento male”

 

Grande freddezza serpeggiava tra le vie, diversamente avrei immaginato in famiglia. Ma purtroppo sbagliavo, e nonostante si trattasse appena di un letto, ovunque, anche un sottoscala pur di risparmiare l'affitto, schioccavano scuse come granate di contraeree.

 

“La stanza nell’appartamento affittato ai ragazzi te la potrei dare ma l’anno prossimo...”

 

“Forse mi lascio con il nonno, devo risparmiare”

 

“Romana, che bello non averla più in giro”

 

Affermazione seguita da una risata compiaciuta sistemando i piedi sul divano.

Padre fuggito e madre arrangiata con nuovi figli, ecco il semplice dilemma posto all'apparir sereno del mondo. Anche se m’offrivo di pagare gli studi, il mondo gridava: "NO", nessuno avrebbe aiutato la cara figliola, men che meno i parenti. Si arrangiasse come conviene ai forti, o perisse, a loro proprio non importava. 

 

“E se poi ti lascia? Meglio di no, saresti dipendente...”

 

Più appartamenti che persone, tuttavia, a una gentile ragazza il presente non porgeva un sorriso.

Incassò il rifiuto con eleganza.

 

“Un dolce vaneggio l’idea balenata un attimo di potermi salvare. Nel tritacarne dovrei finire secondo loro, e persino riderebbero vedendomi schiacciata.

Lurido verme, merito di strisciare”

 

Questo l’auspicio per una lussuosa leggenda palpitante sul globo.

Mi s’inorgogliva il cuore nel ritenere che fosse assurdo vivere non aiutando chi si poteva. Non dico tutti, non ero un santo, ma almeno chi sostenevo d'amare, tanto più se maggiorenne appena. 

Lo ritenevo un giusto punto fermo, l'unico modo per salvare il me stesso complessivo.

Era così ingenuo soccorrere?

Sentivo di essere frivolo per qualche spietata logica, come se un aiuto giunto in denaro fosse tentata corruzione.

 

Invece desideravo credere che uniti dal sogno potessimo raggiungere meraviglie: contemplare e sentire la complessità dell'io smisurato. 

10

Vedevo predisporsi la sconfitta ma desideravo salvarla, salvarmi, riempire il mondo non di oggetti ma di sentimenti, trasformare il cielo in fierezza così che non importasse pioggia, nebbia o vento, in quanto nobiltà regnava nell'aria ovunque. Si era fatto del bene, qualcuno non era caduto. 

Seguendo un impeto d’orgoglio, o anche solo il piacere di sentirmi giusto, lanciai il denaro risparmiato in un po' dentro la nuvola del fato.

Investii per regalare tempo a un cervello affinché riflettesse senza ostruzioni primitive: indigenza, malnutrizione, febbri e pasticci.

Lo facevo in nome delle selve promettenti, luoghi rigogliosi senza mancanze. Ci avrebbe regalato ossigeno e bei suoni.

Altrimenti, sarei potuto rimanere in camera ad aspettare una rivoluzione che avrebbe fatto il suo corso lo stesso. Avrei al contrario cercato di aiutare qualcuno che senza me sarebbe inciampato. O preferivo mi trovassero un pomeriggio strozzato da una polpetta ingoiata nel mezzo di un sogno mentre le crypto salivano di prezzo?

Questioni complesse a cui era impossibile trovare soluzioni gratis.

Sarebbero occorsi ricalcoli cosmici, differenze e proporzioni nuove nelle forze affinché la vita tornasse aggiustata nel mio cervello.

Quante persone come lei? Eppure, sarebbe stato sufficiente un proverbiale ricalcolo per trasformare la vita. 

Le energie a disposizione, tuttavia, non erano sufficienti a cambiare la grammatica usata dal cervello per decifrare il mondo. Cominciai a credere che forse, solo per qualcuno l'apparir del vero sarei riuscito a spostare, grazie al denaro, si capisce, il quale liberava o schiacciava nel caos.

Cercavo di ottenere il possibile: almeno Romana doveva salvarsi. 

 

"Lasciate rovinare tutto ma non la cara ragazza. Mi sentirei male nel vederla coperta di svergognate preoccupazioni trasformate in difettucci posturali per via degli inciampi"

Un paio di Euro li prendevo qui e li spostavo là.

 

“Preferisce un pontile o il promontorio può bastare?”

 

“Il promontorio è più fine”

 

“Allora scendiamo a piedi”

 

Facevo disporre castelli e sellare cavalli, le carrozze di accompagnamento sarebbero partite l’indomani stesso senza più indugi.

Il palazzo era un formicaio di servitù gentile e operosa, la quale intenta al lavoro, con dedizione collaborava al trasferimento di una Regina presso un castello enorme e straniero.

Le giornate di maggio in campagna sapevano regalare un’effimera gioia piena, procurata da ridenti colori sparsi tra i più remoti angoli verdeggianti.

La Principessa come al solito gioiva nel controllare la casupola degli attrezzi, un tempo bagno o spogliatoio, la quale mostrava piastrelle su tutte le pareti, azzurre.

Una volta dentro osservava gli ampi lavandini bianchi, le botti e un tosaerba; annusava l'odore pungente esalato nel tempo dagli oggetti dimenticati là dentro, e in aggiunta si rallegrava dei lieti pensieri che quelle cianfrusaglie le facevano emergere in capo.

Quando quella volta ne uscì, corse spostandosi i lunghi capelli biondi da una parte all’altra, come se ogni posa le fosse d’impiccio, o  come se un dubbio le offuscasse ogni sguardo. Continuò e continuò, per ciascun angolo della tenuta. Girava tra arbusti ben tosati e calessini inscenando un disagio.

Allontanarsi per studiare ospitata da futuro Re, era dunque tale il suo prossimo destino? A corte come una Regina? Si domandava.

Ero così sprofondato nel vaneggio peggiore: impegnarmi su presupposti ideali pensando che le conseguenze di tale sfrontatezza sarebbero state gestibili con facilità; indecoroso errore.

Per non fallire nel giro di poco avrei dovuto mantenere ben chiari gli accordi. Ero pur sempre un futuro Re, possedevo ogni facoltà di preservare l’indipendenza desiderata.

Volevo sentirmi libero di partecipare a una battuta di caccia in tranquillità sapendo che avesse le sue stanze e il suo corpo di servitù. Condividere i maggiordomi era infatti lo stigma del non ritorno per le casate di un certo livello, lo sapevano tutti.

Guai portare screzi tra famiglie, i blasoni esigevano rispetto.

Sarebbe venuta al castello e le avrei consegnato le chiavi della magione persa nei fiori più vari.

Era tra l'altro già stato creato il suo piano di studi privato, il quale sarebbe stato impartito in molteplici stanze a seconda dell'argomento trattato, così che ad ogni necessità di piglio il panorama ricordasse un segreto.

I monti affilati e arcigni avrebbero testimoniato come le vette siano l'obiettivo dei giorni, il mare scintillante e profondo avrebbe rammentato che siano gli abissi i fondali da cui nascono le cime più alte, mentre un largo fiume dinnanzi avrebbe ravvivato un cliché: che sia la perseveranza a scavare un solco. Dall’ultimo angolo invece, avrebbe osservato il precipizio e le cascate, da cui si gettavano solitamente le disperate dopo aver udito quante regole e Divinità fossero da rispettate a corte.

Difficile essere Regina.

Per questo agitata passeggiava assorta nel cortile rivisitando gli angoli più cari. Commemorava i sereni giorni passati, quando la vita non pretendeva un sacrificio per ogni ettaro di siepi e di statue possedute, ma sufficiente era al contrario presenziare lezioni di cucito e francese, il the con le nobildonne prima di banchettare e danzare.

Una splendida idea tessere relazioni e rafforzare i possedimenti del caro impero eretto da mio padre, vice reggente di sua Maestà il Sole.

Alcune lettere ricevute martedì pomeriggio raccontavano di prove belliche a nord, sul confine, appena oltre il regno da cui proveniva la giovane tanto sognata. Erano i minacciosi Ottomani, i quali bussando all'uscio non auguravano poi buone feste.

A tal fine era necessario premiare la terra della gentile Romana. Intendevo per l'appunto addolcire gli animi ai confini così da farli sentire entro una potenza tanto immensa quanto magnanima con i fedeli amici. Desideravo che l'integrità del regno fosse considerata un vantaggio unanime da mantenere. Per questo era opportuno udire le mani battere, condurre ricchezze e possibilità nei luoghi. 

Una loro figlia consorte del futuro Re? Motivi per cui giungeva denaro.

Vacanze, investimenti, il tutto in cambio di giovani combattenti fedeli, disposti a tutto pur di sconfiggere i maledetti Ottomani.

Se così pensavo di rendermi alleato il popolo, era anche necessario però che la famiglia reale mi accettasse.

Sapevo che la giovane promessa nascosta nel parco tra un fico e un fiore di sambuco aspirasse al titolo di poetessa. Non si potevano chiedere rinunce a una talentuosa aristocratica in vista di nomine solo perché i docenti risultavano in fuga dalle zone prossime all'invasione.

Ci avrei pensato volentieri, se non altro per questioni di meraviglia: volevo aiutare una Principessa a diventare Regina e a salutare le folle con guanti di raso.

Sua Nonna tuttavia, la duchessa del Mar Caspio, avrebbe preferito favorire interessi più regionali, perché di un impero avrebbe sofferto a sentirsi colonia.

In segno di stizza dichiarò quindi che non le avrebbe donato il corredo nuziale promesso, a cui molto teneva la Nobile fanciulla.

L'anziana signora, in poche parole, riteneva il sottoscritto un fenomeno inadeguato al benessere del loro avvenire.

Cercando un accordo quindi, per chiudere la faccenda, finanziai l’università, portai un teatro e l’arena.

Nel suo essere una diplomatica provinciale, sua Nonna potè vantare un trionfo. 

Noi sapevamo che l'avesse tranquillizzata il denaro, tuttavia, ai cronisti affermai: “Fidatevi del sottoscritto. Stringete la mano ad un amico, è meglio” 

In verità si concludeva lì tutto ben prima delle false dichiarazioni a cui un Nobile è tenuto. Ogni cosa era infatti iniziata e finita porgendo a una ragazza l'opportunità di farsi Regina, di arricchire la storia concependo un reale nell’impero massimo, non prima però di aver inseguito la propria vocazione, perché mai avrei sposato una giovane delusa a schiava. Le auguravo prima di sbocciare suadente, bella al mondo.

 

“La aiuto cara”

 

Promettevo meraviglie. Sognavo di rendere fiero un popolo nell'esserci d'aiuto.

Era vero allora che fosse il cervello il mondo, se in un baleno litigavo di imperi e confini, plotoni e ordini impartiti da generali.

11

Di vento bagnata tra chiome lucenti, un fiato e un fiore, approdò la Principessa giunta via fiume non su barca ma su guscio di conchiglia.  

In riva l'attendevano i messi regi impazienti con un telo rosa a trame floreali pronto a cingerla.

Una volta avvistata la conchiglia approssimarsi, mandarono un cavallo e li raggiunsi. 

 

“Stai volando?”

 

“No, scivolo!”

 

Un poco di melma splendente cresciuta sulle pietre fluviali le rendeva malfermo il passo.

Uscì quindi dall’acqua incespicando sui massi ricoperti di alghe.

I familiari l'avevano spinta oltre il confine acqueo e lei era giunta impaurita proteggendosi il seno con un braccio, mentre con l’altro, brandendo l'estremità della chioma, si era coperta la nudità massima altrimenti visibile in una così chiara ora del giorno.

"Benvenuta"

La salutarono mentre al trotto li raggiungevo. 

Nel frattempo, pensavo che stessi contribuendo alla curiosa novella di una giovane la cui storia sarebbe svanita nel giro di poco. Era così vano il nostro esistere, appena una tediosa necessità la vita, irrilevante e fondamentale, spiacevole malasorte: costruire ciò che svanirà cancellato.

Discutevo appunto con l'animale al galoppo di quanto fosse incomprensibile il nostro esserci, perché nulla potevamo sapere, e mai era concesso che organizzassimo alcunché: non i fraseggi, né i pensieri, i suoni o le visioni. 

Ogni elemento invece giungeva e basta, stabilito da cosa non si sapeva. 

Grande concessione queste righe come tali pensieri, in cui "Intelletto" si presentava dichiarando:

 

“Buongiorno a lei caro spettatore di magie"

 

“Io sono colui che inventa... Buon viaggio”

 

Desiderava infatti mostrarci un film.

Mi sarei aspettato nomine per ambire a premi massimi visto cosa stessi rivelando circa il creato. Invece solo trottavo per incontrare una bellezza Divina giunta come nei sogni. 

Il Maestro era sceso un attimo per dirci poco sopra che sì, progettava il nostro sentire.

 

“E comunque sono ancora qui, cari giornalai. Scrivo per salutarvi con un Ciao. Io creo e stupisco, maltratto e vizio, compaiono i miei lavori a te. Via che ora riprendo”

 

“No, aspetti, mi scusi...Giochi con tutto ma salvi la ragazza!”

 

Purtroppo però, scansò ogni risposta; era fuggito.

Cavalcavo felice, certo e sicuro senza ulteriori dubbi. Ero un paralizzato spettatore. Lui invece, un fine regista.

12

"Presto, vieni"

 

Dichiarai sottraendola al gruppetto che le si era posto intorno.

Salì così avvolta nel telo rosa e corremmo via per la foresta.

"Intanto attendete i bagagli, noi vi raggiungeremo a casa"

Dissi al resto della servitù.

 

"Salta sul destriero con me e partiamo. Prima che inizi la vita di corte voglio conoscerti. Cosa sogni? Cosa vorresti?"

 

"No, no, non rispondere ora"

 

In mezzo a una radura ci fermammo.

 

“Vedrai...”

 

Il grande regista si scatenava. Assistevo al cervello in preda a manifestazioni impetuose.

Infatti, sapendo che io fossi a conoscenza dell’arcano, poteva lanciarsi in ogni sorta di stupore, far comparire l’impossibile e violare ogni legge.

D’improvviso mi stavo spogliando e restai nudo.

Domandò cosa stessi facendo. Risposi che mi fidavo del mondo e che avrebbe capito.

 

“Non voglio fare l’amore”

 

Puntualizzai. Poi una mia mano si tese e afferrò il panneggio rosa da cui era cinta, tirandolo con delicatezza fino a scoprirla, nuovamente, linda di fronte al creato.

Un canto primaverile suonava fra rami e arbusti mentre il sole accompagnava lo squilibrato disporsi della memoria in situazioni inusuali.​

All'improvviso la scena cambiò e non più insieme eravamo.

Io subito capii, ma lei? Lei dove si trovava? Era una prova o il film?

Il caro pilota non disse, così mi agitai.

L’avrei subito perduta? E cosa avrei dichiarato?

 

“È finita tra i morti, Il matrimonio è andato storto”?

 

Oddio non potevo.

La preoccupazione saliva, poiché mi destai in un affresco: il Giudizio Universale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Concreto era il rischio, dovuto al massimo pericolo di scivolare all’Inferno.

Io al sommo avrei dovuto condurla per lasciar intendere cosa potesse raggiungere la nostra unione, non altro.

L'imperativo era trovarla, altrimenti l'impero sarebbe fallito; ecco il punto.​

Ero per terra tra i miseri tutti, accalcati nel luogo, il mondo, ove si sceglieva se l’imbarco infernale o il volare supremo.

 

“Romana!”

 

Gridai, ma si girarono in troppi e non la trovai.

 

“Ah! Poveri noi. E adesso? Cervello aiutami. Cosa comparirà? Cosa farò? Mi lascio andare...tu, sogna...”
 

Notai allora che la maggior porzione degli imbarcati era lì per volere altrui. Era stata venduta o scambiata da chissà chi per salvare un caro, sé stesso o un amore.

Sembrava un ballo di pedine quel visibilio sulla strada per cui non si tornava.

Da ciò che capii, all’Inferno entravano prestanome catalogati all’ufficio subalterni, a cui era applicata la tassa tot, l'interesse X sul prestito.

Assistevo infatti a scene oltremodo grottesche, in cui uomini adulti ingannavano ragazzi con scuse e promesse, convincendoli ad arruolarsi e ciao ciao. Dicevano: 

 

“Vedrai, non patirai più il freddo e pagano bene. Se ti impegni andrai in pensione e possiederai una casa”

 

Capitolavano invece loro, bruciando. L'ardore giovanile acclimatava il cielo dei sommi e anche un poco il regno da cui il viaggio iniziava, in cui stavano gli appaltatori.

I giovanissimi erano perfetti a tal fine. Al mondo da poco, non sapevano come girasse il sistema, su cosa reggesse, e si facevano abbindolare. 

Pensioni, affitti, tasse, firme e consensi obbligati. Tutto pagato agli anziani da giovani costretti a lavori scadenti in un mondo che ormai aveva scelto i reggenti e possibilità nuove non sapeva creare. 

Per il benessere di simili piscialetto costringevano il futuro a strisciare.

Se non ben accorti e ribelli, i ragazzi sarebbero stati comprati e spinti sul veliero senza ritorno per reggere le fondamenta del tempio pericolante.

Nonostante tutto, con l'orgoglio infranto e circondato di falsità, la vidi poggiata come segretaria fino alle 15:00. Il pomeriggio e la sera invece, almeno mezzanotte faceva studiando libri inutili per il suo avvenire, ma richiesti al fine di stampare un foglio timbrato riportante maestoso il suo nome in alto, consegnato da messo regio.

Senza il tempo per sognare l’altissimo si condannava una fresca mente a non vedere che misera erba, terra scrostata e tombe. Ovvio che il sibilo di Lucifero, a forza di scrutare erbacce e pietre, paresse opportunità, se per giunta in cambio prometteva temperature più alte, di non perire congelati almeno.

 

“Ma come? Non fatela andare”

 

Gridai

 

“Sta scivolando, non vedete??” 

Ciascuno pieno di appartamenti ma nessun letto per lei.

La nonna, appena estinto il mutuo, già una stanza aveva promesso a una signora; proprio non poteva disdire. L’anziana affittuaria mai avrebbe trovato un altro riparo in zona; stanze a pagamento erano finite. Tra una donna matura e la nipote, preferiva la sessantenne pagante piuttosto che la nipote promettente.

Dichiarato e messo agli atti.

 

“E se poi dovessi rifare trasloco in pochi mesi? Una noia più che altro, meglio di no”

 

Io la capivo persino. Come poteva una ragazza continuare a ricevere sentenze il cui unico successo fosse dimostrare come nessuno le volesse un minimo di bene?

Neppure un letto a una giovane abbandonata si sforzavano di trovare.

Sigillando ogni porta si costringevano i pupilli ad accettare il primo lavoro soggiunto pur di non morire. Lungo la via si sapeva, gli unici a offrire riparo erano i compratori di anime. Per una ciotola di pane e un po' di calore ti mandavano in nave verso lo sfruttamento eterno.

 

“Gentili rapinatori malvestiti, mollate la refurtiva in diamanti. Al diavolo andateci voi, gentili cartacce”

 

Così al polso la strinsi mentre nuda si proteggeva seno e speranza appena prima che un telo rosa smagliante la portasse accudita nel mondo dei maledetti umani, schiavi di sé stessi.

Tra tutto il soave esistere possibile, in tal modo stava per finire al macero un capolavoro.

M’irretivo ed alzavo un dito, contrito in muscoli pieni.

 

“Saliamo, le svelerò un segreto”

 

Ma sbagliavo, perché salendo c'era tutto d’apprendere e quasi niente da dire.

Già un poco asceso infatti, nulla sapevo pronunciare rispetto a prima.

Giunto, in conclusione, poiché tanto superiore il luogo risultò, divenne chiaro come un posto per tutti mancasse lassù.

Elevarsi risultava una rarità, e poiché la meraviglia occupava già tanto, un giaciglio latitava in alto per l’uomo.

Chi vi fosse, tentava di salire anelando a miglioramenti, e crescendo, la meraviglia occupava sempre più spazio.

In cima addirittura, ben oltre il manipolo di spiriti che invadeva il cielo presentato sul muro, lo splendore coincideva con l’ovunque, e appena la perfezione vi regnava.

Ove meno uomini si posizionavano, era perché quasi nessuno sopportasse un così ampio svelarsi di segreti.

Quando il magnifico cresceva, posto per l’uomo calava, e chiunque vi andasse risultava schiacciato da un assoluto entro cui non vi era posto, in quanto già tutto lì si trovava. 

La colsi dunque per un braccio prima che mi allontanassi troppo, ed esclamai.

 

“Il dolore preferisci al dubbio?”

 

“Il più puro e assoluto amore puoi darmi?”

 

“Se sai cosa cerchi il tuo posto è lassù, da qualche parte nel mondo di chi esplora vertici”

 

“Sul serio parli? Dici che esista una speranza?”

 

“Gentile armonia, esiste più di una speranza, esiste tutto, manca piuttosto abilità nel coglierlo. Ma dica, lei vorrebbe esporsi a sua Maestà dilaniante e indomabile?”

 

Questa era la domanda:

 

“Sei disposta a perire in eterno, piegata senza fine da una luce superiore giacché il massimo questo garantisca?”

 

Suprema era l’unica strada di libero accesso mai esistita in terra, e pochi salivano.

Non questione di sentenze altrui, per quanto enunciate da sommi o meno. Il figlio di Dio non giudicava; sbagliava il titolo dell'affresco e la religione a volte. Mostrava invece lui come l'accesso fosse libero a tutti, purché vi fosse tenacia e intenzione. 

Una decisione, salire o scendere, incentivi economici e sensitivi portavano su o giù.

Oltre il visibile nell'affresco, vi era dunque un sistema che tra i muri non era potuto stare, e che al vederlo liberò in me un senso di meraviglia tanto immenso da sorprendermi, perché era già così grandioso quanto sin lì avevo veduto, da non potermi aspettare un simile e ulteriore visibilio. 

Man mano che la beatitudine saliva, infatti, appena uomini abili nel sopportare dolori potevano stare, perché la sofferenza, al crescere del coinvolgimento, era massima.

Udire ciascun segreto svelarsi, ogni raffinato suono porgersi, assistere alle ombre che svanivano e alla luce che trionfava, vedere le fioriture crescere e i profumi aulenti montare senza fine, varcare con l'udito ogni piacevole sorpresa, gustare tondo ogni sapore sempre più... ben presto diventava impresa.

A nessuno era dato manco un poco immaginare quanto bagliore potesse esistere in cima, perché oltre un pò, il sensibile cedeva saturo, e lo spirito umano finiva battuto, o così a noi pareva, perchè oltre non esisteva parola o cenno che potesse testimoniare più nulla.

Un secondo magari piaceva, ma a seguire provocava follia.

Un delirio costante sarebbe infatti risultato per molti l'apice.
A causa di ciò, pochi erano disposti a innalzarsi. Rischio atroce pregiudicare in tal maniera le vaghe gioie sentite dall’uomo.

Molti invece, spaventati nel temere un eterno senza riferimenti, accettavano la chiarezza del male e la certezza del luogo ove si fosse.

Ritenevano migliore il declino rispetto al perenne chiarore.

L'apice senza istruzioni pareva il nulla durante le valutazioni loro, e il degrado preferivano al cielo.

 

“Magari lavorerò in ufficio senza correre nel magazzino di surgelati”

 

Una dannazione chiara e netta lasciava presagire vaghi tepori: feste di prigionieri, ribellioni nelle galere, fellatio ricevute in trincea. Elementi quantificabili.

Alla solidità del censire e alla maestria nel redigere atti preferivano consegnarsi.

Grazie a un buon lavoro mezza eternità la si trascorreva in compagnia di un frigo pieno.

Per ottenere ciò era necessario conquistare un impiego e sperare che ad altri capitasse il peggio.

A tal fine studiavano cercando soluzioni nel labirinto della terra. Addirittura, Caronte in entrata distribuiva piantine e statistiche.

 

“Ha un depliant?”

 

“Ma certo. Stanno costruendo un bel condominio, ho sentito che cerchino piloti in città”

 

Chi sfogliava la brochure senza gettarla inorridito poi accettava, usciva mesto dall'affresco.

 

“Gentile... il più puro e assoluto amore è lassù, ma potrebbe soffrire cercandolo”

Accennò un sì con il capo. 

 

“Allora presto, si accenda, perché solo con impeto mi raggiungerà”

 

“Amare qualcuno non basta mi vuol dire?”

 

“Dipende se è vero amore. Si sente pronta?”

 

“Smetterò di capire alcunché quindi appena volata?”

 

“Ormai sei qui, persa nell’aere distinta”

 

“Capisco. Sento già svaniti i definiti profili, magra illusione per condannati”

 

“Impressionante fanciulla, d’ora in avanti si arresti ove preferisce. È ormai giunta nel regno del dubbio, il quale più si svela e più mostra l’insopportabile verità di tutte le cose, fatica immensa a tutti preclusa, celata nel mistero di ciò che dà”

 

“Saliremo insieme curiosi di capire fin dove lo slancio non ci renda poltiglia?”

 

“Insieme non saprei”

 

Stava forse bramando una scampagnata amorosa in Paradiso? Desiderava salire ridendo coperta di luccichii?

Era una talentuosa palpitante leggenda.

“Misteriosa signora liberata da un inganno, si sente promettente vedo. Neppure si cura del rischio che io magari sia un altro vile mercante pronto a condurre il suo impeto in strade di nebbia”

 

“Arrotino, non si pesti un piede. Svelò l’arcano del fato, non credo si limiti a giocare con una biondina”

 

“Giocare con una biondina? Io che svelavo l’arcano?”

 

La prestigiosa giunchiglia non credeva io solo scherzassi.

Ero appena un giovane ubriaco alla festa della vita che cercava di esistere.

Raccontavo pensieri sbagliati sul mondo e lei ci credeva. La sua memoria contava su fiabe e leggende, riteneva di essere una salvata fanciulla in affresco eterno.

 

“Coraggio, sfidiamo i bagliori”

 

Sosteneva euforica, pronta a salire un cielo che manco esisteva.

 

“Va bene viandante, facciamo un passo?”

 

Domandavo in camera ballando.

 

“Si, partiamo”

 

Rispondeva cingendomi con un bacio inatteso e repentino.

Seguì uno schioccare e un sorriso, mentre il suo longilineo indice, sorretto dal braccio proteso, puntava l'avvenire. Insisteva perché a quel punto si andasse lassù.

 

“Non te lo puoi essere inventato, io ci ho creduto e ora esiste. Voglio andare, finire come una bandiera al vento consumata dal soffio palpitante della vita”

 

Diavolo, un personaggio privo di scrupoli avevo salvato. Non una casalinga slanciata, quanto l'alba di una stella, uno scintillio crescente.

Eravamo saliti ancora grazie all'ardire da lei mostrato, e la moltitudine di sensazioni a cui eravamo obbligati stringeva sì forte da condurre al panico.

Mancava il respiro, perché sentivo il petto premuto sempre con maggior perseveranza in punti diversi, come se innumerevoli getti cercassero un varco per riconquistare spazio.

Tentavano di seppellirmi, i suoni, gli odori, i pensieri. Nulla sarebbe rimasto di me senza lei accanto.

Un destino di smarrimento mi avrebbe atteso, sarei stato fiaccato da perfezioni paragonato alle quali risultavo un nulla. Forse avrei dovuto desistere. Eppure con lei ero; perderla sarebbe stato un delitto.

Non capitava spesso, infatti, di viaggiare con pregiato entusiasmo. A lei quindi avrei cercato di fornire sostegno nell’impetuoso salire altezze già pesanti, da solo irraggiungibili.  

 

“Si sente male, gentile benefattore? Vuole che telefoni al Re di Francia per uno svago in Costa Azzurra?”

 

Cosa diceva l’avventata medaglia olimpica?

 

“Quale Costa Azzurra, perfida ragazzina?”

 

“No, mi scusi, non volevo offenderla”

 

Prendevo tempo ansimando con fatica mentre un giovane miracolo porgeva una mano aiutandomi in luoghi ove già molti giacevano scomposti per l’eccessivo incontro.

 

“Appoggi il limite della bocca sopra la mia e non ci pensi. Lo schioccare di un piacersi fa indietreggiare il padrone. A cospetto di una magia chiunque impara e concede spazio. Quando sentirà fatica mi baci dunque, vedrà come del cielo diventeremo muse”

 

“Va bene”

 

Mi limitai a confermare avendo udito un così inappellabile ragionamento.

 

“Se ancora non ti avvicini, vuol dire che si possa salire nuovamente, subito, adesso”

Insinuò.

 

“Subito adesso?”

 

Domandai angosciato, prima di baciarla come stabilito.

Incredulo e contento, poggiai le mie sulle sue, labbra, fin quando divenni leggero e ardito, volando nello spazio più sù. 

 

“Non troppo però, gentile patrizio, ora si stacchi”

 

La salvata ragazza era già Maestra nell’arte di scalare il massimo.

 

“Mi scusi”

 

Solo risposi, perso su una nuvola, svenuto tra braccia solari.

Servì uno spruzzo d’acqua affinché non perdessi i riferimenti.

 

“Povero, forse devi scendere. Qui risulti sfumato, ti sfaldi”

 

“Ormai senza te dovrei nascondermi, come si può vivere senza una stella?”

 

“Salumiere, si è affettato il lume nel panino? Si svegli, c’è la musica da spegnere. Andrea poi si lamenta”

 

Già, era vero, il coinquilino si lamentava di tutto, era meglio abbassare la musica tra le nuvole.

Uscii dal letto e chiusi il computer. Sentii freddo alle gambe; una voglia di tornare al caldo mi prese.

 

“Non si sta bene fuori, Maestra, preferivo vagabondare nel sogno”

 

“Allora sbrigati” suggerì, persa nel torpore di chi sonnambula parlava.

 

Serviva dell’acqua e un rapido passaggio alla toilette prima di ricompormi.

La faticosa realtà pareva come lo sfiancante salire.

Da che parte stavo?

Vita o follia, disordine o progresso?

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13

“Cara Maestra, ero finito in un vaneggio”

 

“Presto, torna al caldo”

 

Replicò lei appena, come se ci tenesse a perseguire la nuova fede.

 

“E se sbagliassi?”

 

Immaginai.

 

“Se questo pensare conducesse a follia e non stessimo valicando alcun limite supremo?”

 

Intanto mi cercava nel letto come faceva qualcuno a cui serviva un compagno per raggiungere il traguardo: accettare l’esistere sfortunato nei tempi di crisi.

 

“Non rovini i dolci sogni, si metta tranquillo, la prego. Se pensa di tornare a discutere con gli infernali guardiani, digiuni e vada al diavolo”

 

“Digiunare e andare al diavolo?”

 

Fosca visione per chi passato entro affresco papale vagava stordito in mutande.

“Devo solo tornare a sognare”

 

Riflettei poggiato al pianoforte sporco di briciole e tabacco residuo. 

 

“Non siamo qui per conoscere Dio, dunque?”

 

“Non mi risulta, gentile compagno”

 

“E allora perché ci affanniamo?”

 

“Per riposare meglio”

 

Ah, ecco, non ci avevo pensato. Un gran trambusto per dormire bene.

Il volo tra i sommi prendeva quindi le sembianze di una passeggiata campestre il cui unico fine era stato coadiuvare il sonno.

Benissimo. Ritenevo tuttavia che una cosa fosse vera: per salire di più e riposare tranquilli sarebbe stato necessario comprendere un punto di vista allargato, uscire da noi e accettare molteplici esistenze.

Oltre lo sfumato esistere all'interno di un capolavoro, ad esempio, persisteva una stanza piena di affreschi, ricca d’insegnamenti. Potevano racchiudere sfizi preziosi, conveniva sbirciare.

14

Guardai lei, nel mezzo della notte. I capelli biondi le cingevano il viso in un’aureola dorata. Era stesa, coperta da una maglietta rosa su cui appariva la marca nel centro bordò.

Le gambe erano nude, sparse armoniche nel letto.

La mano copriva il vizio, mentre gentile e assorta riposava distesa.

 

Tornava ai pensieri la questione di chi fosse.

 

La memoria infatti era in tilt, presentava vaneggi uno dietro l’altro.

Stavo per credere a una storia banale, nulla più che un racconto.

Il discorso presentato dall’intelletto diceva che lui fosse tutto, e io nulla.

Ma allora lei, chi era?

Lei ero io?

L’avevo creata per salvarmi? Per condurre vicino al testimone un personaggio degno di mostrare lo scandaloso apparire del vero?

Lei dunque, sopportando altitudini maggiori, era per me uno specchio del cielo, figura attraverso cui mirare come si arda più su?

 

“Calmo, severo gendarme, crede forse che le dicerie siano vere?”

 

Non sapevo più cosa ritenere probabile, né cosa guardare per sostenere che giorno fosse. Un caro martedì o il momento di inginocchiarsi confessandosi smarrito?

Il servizio di sensibilità offerto alla memoria si stava rivelando piuttosto estroso. Assistevo ad ogni genere di cose, voli e titani, amministratori dell’Ade persino, Caronte in persona a cui avevo sottratto una gemma.

Questioni fini e rarissime. Avventurarsi in un simile gioco scuoteva le geometrie e le regole. Com'era più possibile mangiare una pizza dubitando che lei fosse me in un cannibale gesto eseguito nel tentativo di assaggiarmi?

Il capriccio di salvare Romana affondava. Pareva una gloria effimera cercata per motivi irragionevoli ogni secondo maggiormente.

Ciascuna possibilità era sinonimo di nessuna, e io dunque cosa volevo offrirle, se conoscere portava al dubbio? 

"Dove riposa tutto, non può esserci altro, e quando esso latita, resta incertezza"

L’inespugnabile eccezione conteneva il responso alle nostre domande, eppure risultava proibita. 

 

“Principessa, ben arrivata a Napoli. Alloggerà nella dimora vicina al parco; si troverà bene"

 

Ma lei dormiva, stanca, in seguito al pericoloso viaggio, nascosta in un gonfio abito di pizzo.

Riposava dunque la cara giunchiglia, socchiusa al cospetto del Re.

 

“Buongiorno giusta magnolia, rilucerà commozione, vedrà, non si preoccupi”

 

E la condussi verso le nobili stanze, emozionato.

15

Colpire il Sovrano appena prima delle nozze fu un gesto inatteso.

Il Re Ottomano attaccò il regno un giorno protetto. Ma come mai tanto astio espresso dal sempiterno nemico?

 

“Osservatori internazionali giudicheranno le truffe di cui è stato accusato”

 

Paventarono all’entrata.

Qualche disgraziato ben pagato per il gesto si dichiarava da me corrotto in circostanze manco chiarite.

Lo dicessero: era vietato detenere sorprese nascoste, proibito dal trattato sulla pace, per cui nessuno gioire poteva se non contemporaneamente agli altri; quindi mai.

Talvolta ottenere una gioia costringeva a un torto, come in quel caso.

Timoroso che il matrimonio portasse grane al suo prestigio, il Re Ottomano attaccò prima che potessimo integrarci con la macchina organizzativa annessa di recente all'Impero.  

La terra dell'amata Romana risultava arto indolenzito non aizzabile, contro cui si scagliò.

Residenza abusiva; risultava rapimento. Dichiararono.

 

“Hanno rapito la figlia del Re”

 

Un sopruso intollerabile.

Far sapere che avesse compiuto la fatica di partire scatenò la malafede.

Addirittura, fuggita di casa per maltrattamenti. Una famiglia di pazzi stava emergendo, un popolo di vigliacchi se non avesse reagito. Più non si poteva esitare.

Gli ispettori dell’organizzazione mondiale trovarono la giovane ragazza nel celestiale palazzo immersa in splendori naturali. Sostennero che fosse in ostaggio.

Nessuno spiegò dell’affresco e di come l’avessi salvata, che insieme fino ad uno sconosciuto livello del paradiso fossimo giunti.

In discorsi impossibili eravamo volati, eppure, citarli a nostra discolpa risultava un pericolo dinnanzi ai controlli chiamati dal vicino inopportuno.

 

“Che dispettoso il Re Ottomano, è vietato persino divertirsi”

 

“Gentili adoratori di numerosi poeti, vi rassicuro: ci amiamo moltissimo. Preferisco ammaliare che rapire, ed essendo un meritevole allievo dell’incanto, come potrei non riservare doni ai ricchi suoli che portano fiori sotto il cielo dell’Impero?”

Affermai di fronte al mondo. 

Potevamo seppellire così il discorso e tornare a ballare. Eppure, i timori dovevano essere altri, perché insoddisfatti, i nemici attaccarono il sottoscritto affermando che possedessi una galleria segreta dov’erano esposte le teorie di un pazzo, pericolose per una ragazza.

Accusato di rapimento e plagio, ritenevano che l'avessi indotta ad amare il falso.

Io aguzzino di una stella?

Figuratevi un po' se rovinarmi così fosse possibile. Un frivolo disguido, un giorno di pioggia in un’estate accecante.

Eravamo stati lassù, e loro, cosa cercavano di raggiungere con simili accuse?

Tentavano di utilizzare leggi per separare terre che già si piacevano unite, le quali risultavano felici di legare tradizioni e saldare ormeggi. 

 

“Vi sembra giusto stringere intese con chi professa eresie? Scissione! Riportate indietro la Principessa”

 

“Giammai, morte piuttosto, caro Pastore”

 

Consisteva in un tira e molla fra imperi capricciosi la vita.

Associare concetti intelligenti ma non correlati, invece che destare lamenti, purtroppo aizzava le folle.

Su tale comportamento facevano da sempre affidamento i reclutatori di milizie.

Prima del cattivo Re Ottomano infatti, avevo già udito simili discorsi:

"L’eterno si raggiunge morendo"

"Obbedire è amore"

 

Volendo interrompere dicerie varie, quindi, suggerii alla splendida cima luminosa di scrivere una lettera spiegando le ragioni della sua scelta.

Un falso da me redatto, sostennero i giornali.

Ero malvoluto purtroppo. Storie di gioventù, emotività e ardore, impazienza nei corsi di guida.

Contento di sfrecciare ero andato troppo rapidamente da un colle all’altro infastidendo l'insegnante, nervoso circa le guide con il sottoscritto intraprese. Temeva la sospensione della licenza se mi fossi schiantato, o se una povera anziana avessi investito.

Avevamo saltellato giù per la collina come si era visto fare in antichi cartoni animati.

 

“Allora, tutto bene? Ti vedo pensieroso...Per questo fai le guide con me? Ti piace correre carino amico?”

 

Annuiva, liberando fuori dal finestrino lo sguardo in cerca di sollievo.  

Oltre la carcassa di metallo intanto, il mondo cambiava rapido; un cipresso e un faggio, già era passata una selva o due, tanto correvo nel sole blu del giorno.

 

“Sai, è il mondo a venirci incontro come un film apparso. La mente inventa e noi assistiamo, basta"

 

In seguito a tale affermazione divenne arduo per il sottoscritto convincere la motorizzazione civile riguardo la mia abilità nel guidare un auto. 

A quello facevano riferimento i giornali: incapace di superare l'esame di guida, sembrava accettabile affidarmi la nazione?

Porgermi simile accusa fu invece un regalo.

 

“Chi proferisce certi quesiti svela la sua inadeguatezza nel giudicare ruoli elevati. Non parcheggio carrozze, cerco di salvarla, caro redattore. Simili tentativi meritano valutazioni con altri criteri. Mi accusa di non avere le scarpe non sapendo che io voli. Vedrà”

 

E dopo un simile atto onorevole di responsabilità, il fiato dei giornalisti tacque portando una notte di placidi respiri.

16

I controllori dell’Organizzazione mondiale tornarono ai rispettivi luoghi di origine con una scatola di biscotti e un mantello in seta da me regalati.  

Dichiararono che non ci fossero urgenze, ero in linea con le autorizzazioni. 

Avevo sistemato il famoso Impero Ottomano per un attimo. Mi sentivo felice, potevamo accrescere gli sfarzi.

 

“Gentile Maestra, sono tornato"

"Oh, vieni che sto gelando, torna fra le nuvole"

Vestita di poca seta, sorretta da luce soffusa e leggera, porgeva un dito affinché la raggiungessi.

Sostenuta e sospinta si allungava per condurre in me un'anteprima di come paresse il livello ulteriore. Un dito a mia volta tendevo, perché già pago di quel tumulto ritenevo il prossimo un rischio assai elevato; possibili scomparse preferivo evitare. Così, solo una falange lanciata verso il mito, teso e molle, già fiacco le porgevo.

E fu in tal modo che neppure a sfiorarla riuscii, perché appena il suo indice avvertii vicino, trasalii d’ammanco.

Lei si arrestò, e la rosea seta posatasi, per miracolo cominciò a galleggiare nell’aere intanto che l'infinito m'accecava.

 

“Mi riprendo. Dammi un bacio però, solo indicato soffro”

 

E tornò a proteggermi, rendendomi lampo un attimo.

Qualche respiro ben sistemato e la fata sublime una volta in più m’aveva salvato.

 

“Guai!”

Sostenni. Non si poteva attendere.

 

“Invitiamo il gentile Re Ottomano e parliamogli di noi. Organizziamo un pranzo cordiale immersi nei capolavori, discutiamo circa l’ambire mortale ed elenchiamo i rischi collegati all’infrazione di atti eleganti”

 

"In mondo visione, una possibile alleanza fra grandi potenze le quali nel mentre si sfidano in prodigi estetici, e non altro"

 

Impossibile scendessimo dal piedistallo se la più alta bellezza sapevamo creare.

Per comunicare ciò lo invitammo a banchettare sotto le stelle, così che anche lui fosse testimone di gesta sacre.

Sostenevo che bastasse inventare magnificenze per non essere attaccati e addirittura vincere. Non si discuteva con chi portava felicità.

Un invito e avrebbe compreso, anche perché non un centimetro del suo terreno avrei chiesto in cambio.

Solo che tornasse l’anno venturo domandavo, per accertarsi dei progressi.

Tra un capolavoro e un prodigio, in preda all’estasi sarebbe crollato d’infarto.

Quanta finezza, un regno conquistato per mancanza d’alternative; dopotutto, era perito tra le mie braccia.

“Così si vincono le guerre”

 

Suggerì un giornale di provincia senza che dovessi pronunciare alcunché.

Sorprendendo si ottiene udienza maggiore.

Lo consigliavo al mio Stato, di vincere in quanto magnifico, e non forte.

Solo il piacere l’uomo non vuole distruggere, figurarsi augurare il male ai popoli dispensatori di meraviglie.

Non militari ma doni avremmo inviato. Statue, dipinti, strofe saffiche e fontane.

Regalavamo al mondo un poco di lustro, detto anche stupore, e in cambio ottenevamo rispetto.

I giornali non si lamentarono più, mi definirono un buon Re. 

Avevo espanso e consolidato allo stesso tempo. Non c’eravamo che noi, circondati da polveri barbariche sparse qui e lì.

Che fosse chiaro, non esisteva sul globo un ulteriore popolo ben organizzato come il nostro.  

Donavamo raffinata cultura e i vicini sopportavano la presenza.

 

“Più in là non ci spingeremo” assicurai.

 

Promettere l’impossibile tuttavia, da prassi consolidata, un attimo dopo si rivelò errore.

Infatti, per uno screzio villano, qualcuno rapì la moglie del console impegnato quell'anno in Manciuria, la quale fu trovata il giorno successivo al centro del paese limitrofo senza vita.

Il pettegolezzo si spanse destando scandalo nella Capitale. La donna era infatti bene amata tra la schiera dei senatori, e questo, accrebbe il cicaleccio sollevato in città. La morte di una signora importante in una società schizzinosa poteva scuotere la solidità di un Impero.

I nobili infatti, accusarono i soldati. Una rottura tra forze primarie caratterizzava i brutti momenti nella vita di un Sovrano. Perdere le redini di Esercito e Senato, entrambi astiosi nei tuoi confronti per non aver scongiurato un fatto, avvicinava il rischio di essere congedato e magari ucciso.

All'unico scopo di placare il chiacchiericcio, distrussi la città e il popolo in questione.

I senatori a quel punto calmarono gli animi e i soldati tornarono quieti.

 

“La prima cosa è difendere l’unità”

 

Sostenni per giustificare il massacro e più di tutto la frantumazione di un patto.

Inutile spiegare come agito avessi per correggere un torto.

Una strage, tuttavia, era peggio di un’annessione, e le genti lo sapevano bene.

Temendo che il gigante potesse esondare, in un secondo a ogni confine il livello di tensione crebbe.

Così, se nulla temevamo, ogni cosa ci impensieriva. L’élite era nervosa.

Pareva un attimo quel vallo a cadere, il confine a essere invaso in un punto legittimando insurrezioni.

Per fortuna sapevo che fosse il denaro a comprare gli animi nelle polveriere.

Portai quindi rinnovamento, fornii strumenti e insegnanti ai luoghi remoti, così che il limite diventasse zoccolo su cui fondare una corsa ben più gloriosa.

 

“Le province si arricchiranno, così noi potremo riflettere e sognare”

 

Poiché i traffici sarebbero avvenuti altrove, i capoluoghi sarebbero germogliati portando uomini d’affari lontano da centri politici e militari.

Nella Capitale ben presto restò lo Stato, la Cultura e la Chiesa.

Grazie a quest’ultima avremmo sino alla mia partenza gestito la moltitudine, tenuto saldo un Impero protetto da una medesima fede secondo la quale non si uccideva un fratello.

“No”

 

Cercai di sostenere purtroppo. Tuttavia, ormai già litigavano e qualche sventurato periva con brutalità.

Avevo cercato il bene, avevo estinto diverse sofferenze, ridotto guerre, condotto ricchezza in periferia e saggezza nel cuore.

Potendo sorridere ahimè, i sottoposti scelsero invece di litigare, visto che qualche avaro signore tentò di scatenare una guerra.

Fu un complotto non giunto dal centro, maturato piuttosto localmente e male, di cui seppi quando ormai era straripato.

Nel giorno quattordici aprile, infatti, il Papa dichiarò corretta l'interpretazione del curato reggente a Pamplona, il quale sostenne che uccidere un infedele rappresentasse favore dinnanzi a Dio, garanzia di beatitudine.

Scelta che avrebbe garantito scompiglio e una possibilità per la Chiesa di emergere, visto che a quel punto fosse ne più ne meno che un organo entro una costruzione maggiore.

Si trattava di una macchinazione ordita da fabbri e calzolai, sospinta dal Papa affinché ricevesse offerte, poiché il credo costava.

Ammazzare il Pontefice tuttavia, non era un bel gesto. A morire sarei stato io invece, se avessi mancato un'azione equilibratrice.

Redassi perciò un saggio ove si dimostrava come il Sommo necessitasse di uno Stato a proteggerlo.

Nella medesima settimana, poi, un gruppo di crociati svanì soffrendo per mano straniera e in ogni dove si cominciò a discutere se forse l’uomo di fede non sia meno credibile quando munito di spada, e il Papa seguente rimodulò i toni.

 

“Eccelso navigatore”

 

Pronunciò all’orecchio un consigliere. 

 

“Pare che lei vinca ancora. È forse Benedetto?”

 

“Per carità, è il mondo che avanza e io assisto.

Non scelgo, per questo trionfo”

 

Confessai.

17

“Basta ricevere la sabbia del giorno! Che sublime è l'esistere senza parlare?”

 

Eravamo così in alto e nessuno fiatava.

Possibile che il sommo ammutolisse invece che suscitare clamore?

 

“Qualcuno le paga gli studi?”

 

“Stai zitto”

 

Ammonì la piccola stella.

Io invece continuai perché ritenni che per salire si dovesse confabulare e interagire, rispondere.

 

“Ordisci un inganno”

 

“Scatena una guerra”

 

“Avvelena il generale”

 

Suggerì il sole.

 

“Rispettabile Mistero, parliamo di surgelati e tasse universitarie, pagare l’affitto alla signora proprietaria. Qualcuno vuole partecipare alle spese?”

 

Salito ero per chiedere un favore.

 

“Neppure sua nonna l’aiuta”

 

“Zitto cretino” tremava lei.

 

Volteggiavo nel cielo, rinvigorito e ben tornato in scena.

 

“Un piacere amici, un piacere amiche, si parla di serenità? Una splendida idea gentili edicolanti arditi. Lasciatemi intonare un messaggio. Mentre voi siete incerti, esiste chi soffre, come facciamo?”

 

“Insolente sei pazzo?”

 

“Mi sono svegliato bene, sì”

 

“Insolente pagliaccio, le soluzioni si trovano per chi ha certi mezzi, con altre possibilità conviene pregare”

 

Ah! Così mi ero illuso per sbaglio: un cocktail sull’asfalto bollente d’agosto, una mala trovata, un erroraccio aver parlato. Temevo a quel punto anch'io che aprir bocca fosse stata una brutta intuizione.

Eravamo alla raccolta punti? Alla tombola in ospizio?

Inciampavo sul gradino a quanto pareva, eppure, mi rigiravo considerandomi vincitore: ogni allarme è preludio del limite, si sapeva.

 

“Dunque, la risposta alla spensierata domanda? Altrimenti cosa siamo, una salamoia di bugie?”

 

Non stavo sbagliando, ma irritavo i pannelli, gli affreschi mutavano e l’universo stringeva sé stesso attorno a un "povero me" senza spazio per respirare.

 

Perché Romana soffriva volevo sapere.

 

“Patisce il fastidio di confondersi”

 

“Lei si confonde gentile Ministra”

 

Ripetei alla splendida Regina quanto udito dal fruscio generale.

Sconfitto a passaparola, a quel punto venni preso e portato giù, perché certi vaneggi non si mostravano in paradiso.

In disaccordo mi trovavo, tuttavia, le regole parevano granitiche, risultava invalida ogni argomentazione. Infatti il luogo era amministrato da ordini in altri linguaggi, atti a cambiare stagioni, sistemare risacche, manovrare stelle.

Il mio lamento cos’era, la mia domanda ove sbatteva nel mezzo di un simile gigantesco universo?

Nel vuoto, era vero. Gettavo parole anche se latitava orecchio.

 

“Ringrazi e saluti sua moglie”

 

Mi accompagnarono dunque alla porta dopo essere parso un vile pagliaccio. Fu un brutto colpo per l’osservatore nascosto, una terribile sconfitta subita e mandata ai comandi.

 

“Non mi sembrava un quesito scadente. Chi ti farà studiare se non un miracolo?”

Ma la mia adorata non rispose. 

Eravamo appena tornati e già un altro fracasso entrava in salotto.

Nonostante avessi mostrato destrezza, giunsero colpi di Stato e minacce; una guerra maggiore si presentò condotta da Numi e annunciata da venti. 

 

“Impudico, lei vuole fare come a Babele”

 

“No, mi scusi, cosa si fa a Babele?”

 

“A Babele si osa e si perisce. Gli organizzatori detestano l'umano riunito sotto egemone forza. Le stirpi piacciono pizzicate dal fuori programma, in frac e mosse da un cambio bandiera perenne”

 

“Lei non arriverà al cielo per chiedere follie. Che perisca piuttosto”

 

Si diceva al sottoscritto.

 

Mi accusarono di tirannia, di bramare la divinità possedendoli tutti, di servirmene per i miei scopi anche se facendolo li avrei resi felici.  

I popoli, in poche parole, stretti in una voce accorata pronta a rivolte, chiesero di passare al brivido dell’autogestione.

Se non potevo fermarli, dovevo stupirli.

Divisi quindi sette volte l’impero. In capo ad ogni provincia posi due consoli: un fidato amico imperiale e un rappresentante del popolo, così che gli interessi di ciascuno potessimo salvaguardare.

Alcuni lo giudicarono poco, tuttavia, in molti ancora riconoscevano i vantaggi di una protezione autorevole.  

Si trattava del migliore esercito al mondo, florido, ben equipaggiato e addestrato da generali il cui solo nome sussurrato faceva indietreggiare ogni principio di sommossa. 

Sopra questa struttura vi erano l’imperatore e il Senato, i quali in casi limite avrebbero ripreso il controllo.

Scomparivo per tornare più forte, lasciando il profumo di un traguardo.

Sprovvisto in voglia di truffare facevo un serio piacere a tutti.

La vita cambiava restando sé stessa, si ripeteva provocando sorpresa.

Ci sentivamo bene, eravamo sistemati con discrezione.

Babele era distrutta e i monopoli perduti. In compenso si creava sintassi sociale, euforia tra genti orgogliose di possedere qualcosa, un alloggio e un campo per lo più.

Risultavano contenti e io gioivo per loro; Il mondo cresceva e generava splendori grazie a raffinati mezzi.

Si iniziò così a lavorare bramando sontuosi capricci: visi immacolati e posture auree, statue perfette, magre e convincenti.

In questo bel trionfo però, purtroppo, i docenti allarmati per eventuali colpi di mano, chiamate alle armi o rappresaglie, gradivano stare lontani dal palazzo e da persone coinvolte nelle decisioni pericolose. Mancavano le ore d’insegnamento, e con la Principessa di mala figura m’indebitavo.

 

“Torno subito”

 

Le ripetevo.

 

“Manderò qualcuno”

 

La circondai in compenso di Opere grandiose con le quali era solita discorrere nei giorni di guerra e consiglio, quando i maestri rischiavano la fucilazione per diserzione e non uscivano a dispensare ravvedimenti.

18

Cacciato dunque dalla sommità poggiai nuovamente sulla riva da cui le anime partivano. Ero bloccato mio malgrado, chiuso tra la folla e impossibilitato a lottare. Così, senza opposizioni, portarono Romana nel luogo da cui nessuno tornava.

La complice di uno spirito malvagio risultava non perdonabile, il castigo era l'Inferno.

Impegnato a vincere, perdevo.  

Gridò mia madre al citofono del mondo:

 

“Impegnato a vincere, perderai”

 

E aveva ragione. Per gestire ogni filo tra le dita m’ero scoperto circondato dal vuoto.

Sommersa da statue e folgorata da geni, la cara compagna dell’età mia nova si allontanò mentre caddi.

Restò però un dubbio: come poteva sparire un beato? Un pellegrino verso la risposta senza fine era possibile che retrocedesse nel peggiore dei mondi? E l'educazione, il rispetto? Al limite mi sarei atteso un processo, invece niente appelli lassù. 

"Tiranni. E la libertà?" 

Pensai.

 

“Ah, ero solo io a vederla così? Davvero?”

 

Lei dunque non era un astro? Non brillava nella storia?

Si parlava di imperi e candelabri, il destino ad uso di un uomo, ma lui perdette sé stesso in una sala di tesori.

Qualcuno mi rassicurava che fosse là, negli inferi scambiata, e io desideravo vederla.

Andata per sempre non ci sarebbe più stata. Il cervello cos'era? Perché la dolcezza ricordata di lei grattava nel cuore suggerendo lamenti?

 

"Gestore di francobolli, stimabile regista, è andato in pausa? Sta facendo merenda? Presto ritorni!"

 

La gara era perduta nonostante il trofeo fosse già stato consegnato; per quello m'incupii.

Di una malattia la maestra morì in tempo di guerra. Crepacuore, qualcuno insinuò.

"Lasciatemi! Tornerò fra poco. Per il resto agite così e così"

Desideravo incontrarla.

 

Dispensai quindi i suggerimenti che ritenni migliori e partii. Fu il Cavallo a condurmi laggiù; il Demolito, l'amico veronese di cui si racconta in "Per il bene del vento". 

Abbattuto per una questione lessicale infatti, ben conosceva la zona.

Neanche ebbi il tempo di capire dove mi trovassi, che subito lo notai giungere al galoppo con la schiena fiammante. Mi era venuto a prendere. 

L’intrepido poeta condannato per vaneggi! Che piacere incontrarlo nuovamente. 

 

“All’inferno si entra con un brutto fraseggio”

 

Esclamò.

 

“Spostatevi, per cortesia, ho un Impero da gesti...”

 

Ma nitrì sopra le mie parole.

 

“Desideri fallire anche qui?”

 

“No, per carità”

 

Quindi tacqui. Se persino il Cavallo mi esortava a smettere, era necessario gettare gli ormeggi nell'animo e attendere.

Discesi allora più giù scavalcando le rocce mentre al trotto l'amico affrontava i tornanti.

 

“Bro, l’ho messa in back”

 

Sentenziarono le sue labbra, poste al vertice del lungo muso sotto la sgargiante criniera. Poi s’imbizzarrì incendiato e proseguì affermando al guardiano:

 

“Dai Fra, no snitch”

 

Con gergo simile dell'Inferno eravamo perfetti abitanti, ci aprirono addirittura le cantine.

 

“Lo so Generale, mi scusi, ma durante il conflitto bisogna far ciò che si deve pur di vincere. Ora in compenso l'Inferno è a nostra disposizione”

 

“Sagrestano virulento... ma con una morta cosa farò?”

 

Meno adatto che al paradiso ero all’inferno?

Allora per non cadere depresso, pensai: 

 

"Rivista la cara defunta capirò chi sono, il cosa mi piaccia della vita, e raggiunto questo, annuncerò piani lungimiranti impossibili da conoscere ora"

Così, scorto un ragionevole piano, mi sentii tranquillizzato. 

Nel frattempo ci spostavamo in macchina presso un quartiere periferico da impiegati.

 

“Andiamo a fare la spesa”

Esclamò il Cavallo. 

 

“Mi scusi, brav’uomo...”

Cominciai per introdurre un quesito, ma venni subito interrotto. 

 

“Siamo all’inferno, non a casa di Lucifero. Si sbagliano tutti. I Numi non spendono simili quantità energetiche per torturare qualcuno. Tolga i rossi, gli scarlatti e le fantasie della sua immaginazione. Aggiunga grigi, verdi deprimenti, servitù e paura"

 

Non il brivido della sofferenza, quanto la condanna infinita a noia e obbedienza.

Un bel quartiere sovietico senza gentilezza appariva ahimè.

L’inferno risultava subdolo più di quanto immaginassi: consisteva nella vita peggiore di ciascuno vissuta per sempre.

Un ritornare di fallimenti e dispiaceri senza fine era quel luogo.

Chi adibito a una mansione e chi a un'altra, si disponevano tutti a occupare un faticoso spazio sostenendo il resto dell'esistere grazie a immensi sforzi. 

Per eventuali sabotatori invece, restava un ultimo livello assai temuto.

Di fronte all'organizzazione complessiva, assistevo al pomeriggio nei panni di un bambino imprigionato coi genitori. Porgevano un libro suggerendo di scrivere una fila di “n”, “m”.

 

“Gentili Cardinali, ho un impero a cui tornare”

 

Quanti vaneggi presentati dal regista sin lì? Quanti colpi di scena sarebbero ancora soggiunti?

Pensavo che arrivando si mirasse l’incredibile, invece sedevo nella mia stanza, impossibilitato ad esplorare il tetro dispiegamento ove si era persa la Maestra morendo.

"Ma non ero io a scegliere dove finire? E le brochure?"

"Per cortesia... Tu credi che all'Inferno..."

Non c'era bisogno che finisse. Con un gesto lo pregai di smetterla, di non farmi sentire più inadeguato di quanto già non fossi.

Da quel momento, accettai così il fluire generale e più non fiatai. 

Quanto tempo trascorso finendo le scuole, sognando un futuro più autonomo. 

Intanto il mio Impero chissà nelle mani di quale uomo fosse giunto.

Stimavo un costo enorme, in termini di vite, per il capriccio di valicare gli Inferi.​

Tuttavia, ritenni che un Re fosse persona libera di scegliere. 

Per tale ragione ero andato: in seguito a fatiche e traguardi raggiunti, considerai possibile scegliere come estinguermi. Farlo valicando l'Ade per esempio, cercando un amore, mi parve dignitoso.

Persi il potere e il prestigio al fine di inseguire ciò che ero: l’altro, il tutto, quello che si mostrava, il sogno. ​

Resuscitai poi da tali congetture quando notai come laggiù una cosa mancasse. Solo da quello si distingueva rispetto alla chiamata realtà.

Non c'erano specchi: ci si poteva conoscere solo riflessi nei lineamenti degli altri.

"E se trovandola latitasse il me stesso ricordato? Se non mi guardasse più tanto bene?"

Domandai al sottoscritto preoccupato. ​

Sarei finito sul giornale per “violenza” sulle donne?

Oddio c’era il pericolo, da Imperatore ad assassino con problemi sentimentali.

Se solo avessero saputo quali avventuro io, loro mai avrebbero con tanta indifferenza registrato il triste misfatto.

 

"Morta nel luogo y, all’ora tot, uccisa dall’ex dopo aver preso il caffè"

 

Un giorno eterno senza specchi, ove lo straniero decideva chi fossi perché solo attraverso di lui era concessa un'opinione di sé. Ecco l'Inferno. ​

Ero nel sacco.

Un poco fregato guardai allora fuori dalla finestra e notai una criniera infuocata galoppante nel tumulto.

 

“Furia di successi! Furia di successi” gridai.

 

“Alberto luci e fraseggi, stile e gargarismi, un giro in soffitta, il cabaret di formaggi. Si ricorda di me, capo gommista?”

 

“Oh, bro, non dormo mai la night perché mangio pussy, ma di lei mi ricordo”

 

Ululava il cielo strozzato.

 

“Non la capisco se utilizza un simile gergo. Desideravo notificarle un'informazione: sono ancora vivo, spero non la disturbi”

 

“M’inchino se lei respira e le porgo i miei omaggi, perché dovrebbe arrecarmi pensieri sgraditi? La porterò in giro Sultano, ma la smetta di sognare, qui c’è la sua erba”

 

Eravamo nell’appartamento chiacchierando di problemi a noi legati come ombre.

 

“Sperava che qualcuno le volesse bene, capisci? È morta di crepacuore, solitudine, tra una missione di guerra e un consiglio. Devo dirglielo per chiudere il cerchio, saldare le spese, che io molto l'amavo, e che molto ancora palpito se sfioro di lei un pensiero"

Indugiai un attimo e ripresi. 

"Temo di non piacerle più. Capisci? Cosa penserei di me stesso se mancasse un luccichio nel suo viso guardandomi? Intuisci il dramma?"

Oddio la mia pena svelata: caduto, ingannato, sommerso di preoccupazioni.

Anche il cavallo più non vedevo. Aveva senso chiedersi perché?

19

Ero bambino e i genitori non potevano capire la realtà della situazione.

Ignoravano che una ragazza fosse svanita a causa mia e che per questo avessi un debito. 

Persino le vacanze natalizie trascorse in montagna provocavano a quel punto sofferenze enormi, visto l'impedimento insormontabile di non poter raggiungere il mio scopo. 

“Prodigioso Destriero, se non sbaglio c'era un patto fra noi”

 

Gli gridai un giorno mentre passava trotterellando in un boschetto.

 

“Perché non mi porta dove tengono l’ultima fatica? Son certo che se m’infliggerò una simile pena qualcuno notandomi tenderà una mano”

 

“Non ha ancora capito. Manca un bene quaggiù, cosa va sperando?”

 

“Cerco il massimo per trovare il massimo, dovrebbero essere nel medesimo luogo”

 

E ripresi. 

“Lo sai cosa desideravo?”

 

“No”

 

"Scrivere una storia allegra, e porgergliela"

 

“La presente?”

 

“Esatto, quella che il folle cervello segna qui su carta. Con tale scopo ora mi porti alla massima bassezza; devo concludere in spuma di gladioli. Poi sarà lei a fare il postino: uno splendido cavallo incendiato recante doni"

"Come vuole salumiere di sogni rinsecchiti"

 

Non aggiunsi altro e lui neppure. Uscimmo dal boschetto e senza fiatare lo seguii ballando. 

Camminammo per tre giorni e quattro notti. All'alba del quarto mattino giungemmo in un luogo apparentemente generico: campagna, collina, non saprei dire dove si fosse. 

A quanto pareva tuttavia, ascoltando il mio complice, lì si trovava il punto più temibile dell'Inferno.

Nitrendo scalciò poi su una roccia, che mossi prontamente. 

L'unico specchio dell'inferno giaceva lì, e per guardarlo, era necessario entrare e chiudersi dentro, nel dubbio di non uscire più.

Preparato al peggior soffrire, incontrai invece il diletto della calma.

Posata la roccia sopra il mio capo, richiudendo il varco, notai come nello specchio, io fossi lei. Cercandomi trovai l'amata. 

 

Allora pronunciai:

 

“Sai, ti racconterò una storia, quella che ci ha condotti qui”

 

Così facendo saremmo ripartiti nella giostra precedente, ancora e ancora in un circolo senza fine per cui in eterno ci saremmo trovati lì, luogo da cui tutto sarebbe cominciato di nuovo tramite il medesimo racconto. 

 

Un'infinita ripetizione di errori, ecco la più bassa sfida diabolica: l’impero di garage e condomini, una partita a calcetto tra i palazzi, i lamenti perenni di mio padre.

 

“Credi forse ti perdoni grazie a questa trovata?”

 

Pronunciò invece la desiderata stella oltre l'utensile.

L’inferno faceva sul serio: ero chiuso nel bugigattolo con una donna infastidita.

Furia di successi nitriva oltre il masso, ma più mani non aveva; era quindi impossibile aprire il bunker dov'ero ormai chiuso.

Ahimè che fregata; ero finito.

20

Uno dei maggiori fastidi incontrati nella vita recente era stato l’odore di cenere intrappolato nella stanza.

Quando in autunno fumavo con la finestra aperta, talvolta la sottile brezza remava in senso contrario e parte del fetore catramoso restava dentro.

Il più grande dispiacere sentito era uscire per un bisogno e rientrare accorgendomi di come il respiro in quel luogo disturbasse.

Del resto, parevo un uomo da nulla, un perditempo complottista incapace di mostrare una via, sempre indaffarato nelle solite poche cose venute così così.

Rimiravo febbricitante chissà quale obiettivo, interessato in fondo a piccole cose, come per esempio un vago senso di giustizia presente in giro nell’aria, sentito qui e lì, seguito senza ricompense.

La verità era che avessi nuovamente sbagliato, e che persino dall'inferno fossi stato allontanato.

Un duro colpo: la novella fu lasciata incompiuta e la prigioniera rimase dov'era.

Allungando una mano, infatti, mi ero accorto come lo specchio non avesse confini. Pensai quindi che in lei sarei finito se avessi saltato, e che una volta capitolatole dentro, con i suoi occhi avrei potuto vedere, cambiando i ricordi e agguantando un perdono. 

Invece saltando, espressi un desiderio di fuga, secondo qualcuno.

Tornai così nel luogo da cui ero partito la notte: il bagno, mentre sognavo il tiepido letto.  

"Amore, ci sei?"

Sentii pronunciare nel buio mentre camminavo confuso. 

"Sei teso per domani?" Chiese distratta con gli occhi serrati. 

"No no, ma scherzi? Il cibo deve essere stato"

E rientrai. 

Si riferiva al numero del giornale che avrei dovuto mandare in stampa. Non mi convincevano un paio di titoli e avendoglielo detto pensava che fosse quello ad avermi svegliato nel pieno della notte.

L'occupazione che esercitavo al tempo infatti, era quella di giornalista: capo redattore del settimanale cimiteriale, per la precisione. Compilavo trafiletti per risvegliare animi.

Non sapevo esattamente chi mi leggesse. Le copie neanche a dirlo, finivano per lo più a terra poco lontane dal luogo in cui venivano consegnate. Ipotizziamo quindici secondi, le prime parole di un titolo e l’impaginazione.

Nel tempo di un piglio o seducevo o la speranza era perduta, vivi o morti che fossero.

Un lavoro prestigioso, a suo modo.

Parlare ai vivi e ai morti, suscitare un sorriso o un valido: “oibò”.

Coi generali discutevo, come con suore e menestrelli.

Nonostante il lavoro fosse stravagante però, pieno di aspetti curiosi, capaci di assorbire l'attenzione di chi lo svolgesse, non avevo dimenticato l'obiettivo che avevo.

Mi ero ben legato al cuore lo scopo dei miei intenti il giorno in cui cacciarono di casa la mia pupilla come una persona che non meritava d'essere amata, come una persona non gradita sulla faccia della terra, e che per questo si voleva lontana. Neppure darsi il peso di affrontarla. No, abbandonarla invece era parsa la scelta più semplice. Tanto, a nessuno importava di lei. Chi le avrebbe mai chiesto come fosse caduta in sventura vedendola in difficoltà?

Non avevano tuttavia considerato il fatto che io esistessi, e che nel cuore mi riposasse la forza di un Re e l'amore di un artista. 

Avrei esaudito la promessa, l'avrei fatta sentire amata. Non avrei risparmiato un solo fiato pur di raggiungere il mio nobile scopo. 
Decisi quindi, dopo essere fuggito dall'inferno, che glielo avrei fatto capire nel modo più elegante, di come tutto l'universo fosse grato a lei per la sua esistenza. 

Le viole, come l'osmanto, il profumo della magnolia o il gelato al pistacchio. Tutto il mondo era contento di vederla, e appena sapere che esistesse, al contrario, portava allegria a tutti. 

Non credesse per esempio che il sole splendesse anche senza di lei, o che il vento non fosse insopportabile se lei non lo ammansiva con il profumo dei suoi capelli. 

Svolgevo quindi un compito arduo per un uomo stanco uscito da una storia complicata. 

Però c'era poco da scherzare, le energie sarebbero finite, e ad aspettare, forse, il regista avrebbe cambiato idea  catapultandoci in chissà cos'altro. Conveniva giocare la partita per le carte che avevo, sperando di non morire prima. 

Ma come porgerle dunque la meraviglia che il mondo provava nel saperla viva, se intorno più cose belle non si sapevano fare? 
Gli affreschi erano fuori moda da quando i soffitti nelle case moderne si erano abbassati sino a sfiorare la testa. 
I dipinti non usavano più da quando c'erano gli schermi. 
I teatri erano chiusi per mancanza di pubblico, mentre tutti si facevano le foto come delle star ma senza alcuna abilità.
In un mondo del genere mancava l'unica cosa che le avevo promesso: lo splendore.

Così dovetti pensare a un'alternativa piuttosto estrema, non appropriata ad ogni tipo di pubblico.

Tuttavia, per i banali pensieri notturni di uno che aveva perso la testa, andava più che bene. 

Dunque, eccoci, al cimitero in cui lavoravo. 

"Forza, restiamo uniti oltre il tempo e i limiti dei respiri, cari carissimi"

 

Proprio quello sostenevo accigliato nel settimanale da me redatto: serviva un'alleanza confidenziale tra i vivi e i morti. Desideravo infatti irradiare una cara Maestra di gioie, e loro potevano aiutarmi.

Di quello parlavo nel numero che stavo per stampare. 

Se qualcuno avesse collaborato avrei portato del materiale, liberandoli un poco in cambio di favori.  

Ma a gran voce titolarono al contrario gli articoli redatti dai morti:

 

“Perché solo pasticcieri?”

 

“Perché serve dolcezza signori nella vita. Se non lo sapete di cosa stiamo parlando?”

 

Risposi che servisse un dolce, e non altro.

Purtroppo però, queste divergenti opinioni fecero perdere tempo.

Ci misi più del previsto a convincerli della mia buonafede, che portassi in fondo felicità a tutti.
Fui tuttavia molto soddisfatto del risultato, quando giunse, perché lo colsi sfruttando appena i segreti della logica e della persuasione, senza ricorrere a minacce o imposizioni di alcun genere. 

La prima cosa che feci, una volta raggiunta l'intesa, fu scandagliare l'intero cimitero di Venezia per trovare i pasticcieri più sommi. Un incontro di prodigi culinari sarebbe stato.

 

“Preferisce il cioccolato”

 

Affermai con semplicità.

 

“Prendetevi tempo, purché si decida un capolavoro”

 

E li salutai, redigendo settimana per settimana un rapporto circa i successi ottenuti: cosa era giunto, cosa in arrivo, cosa ordinato, e così via. 

Un mese consegnarono il cacao Criollo da quel preciso monte nella zona del Marahuaca. Il successivo arrivò il burro, così atteso, sceso in nave dai pascoli. Burro fresco di panna, prodotto nella malga ove transitò Michelangelo prima di scolpire la “Pietà”. Simili pregiatissimi alimenti cercavamo, al fine di completare un dolce per rallegrare una fanciulla.

Accordare un tale arcobaleno di epoche tuttavia, portava la ricetta sbilanciata verso assurdità estrose da ciascuno selezionate solo per il gusto di provare come la sua epoca fosse in campo dolciario, la migliore.

Il forno in pietra lavica dell’Etna, un cipresso antico del Lago Maggiore per affumicare 4 meringhe, e così via. Collezionavo ogni genere di sfizio per farli sognare e ottenere allo stesso tempo un dolce indimenticabile.

 

“Creiamo un mulino, il grano macinato all'istante dona splendore”

"Il colorante bordeaux lo produrrei con la cocciniglia guatemalteca", e via a ordinare insetti.

Il cimitero non era Beverly Hills, i mangia fuoco andavano scordati, spiegai al responsabile dei forni.

 

"Vanno bene le ballerine ma gli elefanti no"

 

Per trovare il tamarindo bastava un gentil passante, non servivano pachidermi in processione da Cartagine.

 

Voi non lo credereste, ma il connubio tra interessare, dirigere e rendicontare faceva tremare i paesi, figuratevi un giornale di camposanto.

Riuscire a divulgare quanto restava, cos’avessimo concluso e perché donare ancora al cimitero comunale, in poche righe tenute in mano qualche secondo, costituiva un compito difficilissimo.

I soldi racimolati per le aiuole li spendevamo invece nel far divertire i consociati; era l’idea migliore. Riguardo a ciò, senz’altro avrei trovato motivazioni ragionevoli da esporre agli abbonati.

L’inspiegabile aveva riguardato, al contrario, la scelta dei soli pasticcieri.

 

“Festeggeremo insieme”

 

Avevo dunque rettificato nell’editto. Allo scoccare del party, li avrei svegliati tutti, rinomati cantanti o sbrigative casalinghe. Era questione di sindacato, neanche l’infedele potevo scordarmi.

 

“Va bene”

 

E firmai. C’era da organizzare un balletto.

"Donate spiriti per una sera alle giostre, vivere un attimo dentro un laggiù"

 

Era forse un rischio? Certo.

Tuttavia, poco si poteva argomentare contro un uomo che scrivendo presso il giornale del Campo Santo organizzava feste acquistando ulivi e fiori maestosi, invitando gente e disponendo tartine.

Come tucani infatti, gli uomini per nulla sarebbero giunti senza cibo in bella mostra. Imbastivo quindi tour guidati con finale spuntino in cambio di offerte. Semplice. 

I salatini a buon mercato presentavano fortunatamente un gusto sconvolgente. Tanto, che grazie agli emolumenti, persino un forno antico disegnato da Masaccio riuscimmo a edificare.

Lo ritenevo un buon piano. 

21

Un certo Brison chiese se riuscissi a procurargli miele di tartufo.

Inesperto del sistema potevano raccontarmi qualsiasi stranezza che io per un attimo ci avrei creduto.

“Miele di tartufo? Non la capisco impresario di spume”

Potevo io sapere cosa fosse il miele di tartufo tanto usato nel 728 a Venezia?

Intendeva la pappa reale forse?

 

“Brison, mi lasci in pace. Il miele di tartufo non lo conosco”

 

E si girò abbacchiato.

Un’armata di vecchietti combattivi era quella.

 

“Michelotti, non si allunghi o frigge anche il grembiule”

 

“Per Diana! La ringrazio dotto giornalista”

 

Quanta cordialità sul velluto nero...

 

“Ascoltatemi pinturicchi e dragoncelli, finito di collegare i tubi?”

 

“Sì”, dissero belli compatti, figli della disciplina forse.

Il gran forno ardeva, il frumento giaceva raccolto ed essiccato. Controllavano ormai già per la diciottesima volta che avessimo tutto; era insomma l’ora di organizzare il magnifico evento: una gara di torte al cimitero.

Voi non lo sapete, eppure soggiornai in Paradiso e anche all'inferno, quindi potete fidarvi. 

Esisteva da sempre un momento in cui al dannato o al Santo veniva concesso il tempo di riflettere riguardo il proprio male o il proprio bene, fuori all'aperto, tra noi, e lì ancora di più soffrire o elevarsi.

Non lamentatevi con il sottoscritto se vi era sfuggito.

Di normalità sto parlando. Presso ogni cimitero nel mondo succedeva quanto descritto a Venezia, solo, pochi controllavano le sottili righe distribuite all'entrata, rimanendo quindi sprovvisti dei documenti capaci di testimoniare ad amici e parenti come ciò accadesse, anche se tutto era regolamentato e distribuito all’alba per le approvazioni anti censura.

Sul finir di ottobre ogni informazione risultava archiviata alla Biblioteca Nazionale, presso Roma, firmata dal Capo dello Stato alla presenza delle Camere Unite.

Era un nobile compito amministrare giornaletti cimiteriali.

Risultavo dunque pronto a mantenere gli impegni e permettere che l’Inferno come il Paradiso o qualsiasi altra cosa uscisse un poco. Semplicemente avrei aperto le urne concedendo loro di vedersi un attimo, decifrarsi, cercare un conforto, soffiare un’intuizione.

Ci terrei anche a precisare come l'occupazione descritta, quella da me svolta, fosse molto antica. Qualcuno in poche parole doveva essere pronto all'evenienza che un simile accadimento si presentasse, ecco il motivo per cui si trattasse di un lavoro ritenuto "sicuro".

Senza infastidire i becchini, il più delle volte si trattava di una mansione per cui quasi non serviva alcun gesto. Si poteva infatti attendere addirittura un millennio prima che quanto descritto accadesse due volte nello stesso luogo, più che altro perché nessuno si prendeva l'impegno di organizzare alcunché, e senza un consenso della gestione, le anime non potevano muoversi nonostante fossero pronte. 

Accettare l'impiego comportava quindi il rischio di farsi trascinare nella pigrizia, perché nessuno costringeva a soddisfare il loro desiderio di manifestarsi. Considerando poi che la religione non interessava più, e che a nessuno importavano i morti, cosa avrebbe impedito all'uomo incaricato di ignorare tutto ciò?

Ma io non ero così, e visto quanto fossi consapevole di assistere a un film apparso per volere del cervello, forte pregai affinché ogni cosa non si trattenesse dal comparire. 

22

Diventando corolla nel grande fiore delle cose belle dall’uomo tramandate, imbastivo il banchetto.

Perfette nel mancare, scintillanti nell’essere anche opache, correvano le ore.

A Romana piacevano i bambini se male non ricordavo.

Come avrei potuto far mancare all’imperdibile festa i suoi fratellastri?

Così scrissi all’asilo, invitandoli. La tomba di Ezra Pound attendeva i loro sguardi, sostenni.

 

“Lo chiedeva la vedova”

 

Aggiunsi.

 

“Cari saluti,

 

Alberto luci e riflessi

Editore In Capo.

 

Venus SRL, Cimitero San Michele, Venezia.”

 

Confermarono con grande solerzia, la quale per altro non mi aspettavo.

Impossibile sapere infatti che la maestra d’inglese lo adorasse, e che, essendo amante della Preside, entro un sospiro incluse la parola: “Ezra...”, il poeta tanto amato.

Nella squisita posizione di chi poteva allietare un caro, la dirigente scolastica si affrettò a confermare, a promulgare circolari e a tappezzare con volantini gli spazi preposti.

 

“Il sonno dei Maestri”

 

Titolava l’evento. Dimenticava di menzionare “Alberto luci e riflessi” nei volantini, tuttavia, il piacere di assaporare un buon piano compiersi rasserenava ogni mancanza.

Intanto, gli ultimi piumaggi erano giunti ben conservati dall'Egitto.

 

“Per dare un tocco di “non saprei”” si giustificò quel briccone del Pasticcere Giordin.

 

“Portate, portate, se vi resta anche un obelisco e una decina di colonne, gli schiavi sono al porto di Alessandria”

 

Estrema lucidità richiedeva il mestiere di chi procurava gioie. Grazie a tale qualità infatti, riuscii a far giungere l’obelisco, le piume e le dieci colonne d’oro.

All'arrivo, i bambini come le insegnanti restarono senza parole.

 

“Ha pulito le colonne”

 

“Sì cara professoressa, ho scoperto che fosse oro massiccio e l’ho risistemato”

 

“E quel magnifico obelisco?”

 

“Vi era cresciuta sopra un’erbaccia. Antico reperto egizio, direi 3.000 Avanti Cristo, conservato come appena scolpito”

 

“A Venezia si trattavano bene”

 

Giustificai il lustro.

"La penna"

 

Aggiunsi, era un’antica tradizione ebraica. Inseguire un vezzo, il gioco dei bambini. Raggiunto il leggero batuffolo alla fine di quello specifico piumaggio, restava la mano nell’altra e avevano corso per niente. Solo un giovane poteva commettere simili errori, e non lo avrebbe più fatto.

Approfondii tale stravaganza mostrando alcuni faldoni scritti sull’argomento: "Giochi Patrizi dell’antico Sinai".

Svenevoli e intricate non le raggiungevo tuttavia parlando. Erano infatti perse in questioni loro, e, temendo che l'impiegato del cimitero desiderasse approcciarle, ascoltavano poco.

Evitarono così di carpire quale maledetto guaio avrebbero incontrato.

In attesa che una trovatella assaggiasse un dolce, chiacchieravano pensando che nel giro di poco avrei tenuto un discorso su Ezra Pound.

Prima però, arrivò Romana.

"Hei, ben arrivata"

Esclamai introducendola. 

Forse avrei dovuto comunicarlo alla scuola, all’adorabile Preside e all’ingenua maestra, che non sarebbe stato un pomeriggio normale. I bambini avrebbero al contrario trascorso un'avventura. Onestamente non credevo che servisse l’approvazione del questore, anche perché non desideravano altro i cari furbetti. Pasticcieri risorti, infarinati e zuccherosi a parlar di tabacco, signore e tagliatelle, caricando un gesto al sentir dire: “tasse”. Non erano forse il sogno di ogni giovincello?

 

“Attenda un poco caro esperto di cremine”

 

Bastava si dicesse agli antichi affermati registi di lieviti e spume per tenerli buoni un attimo, visto quanto fremessero.

 

“Avete portato il disinfettante mani?”

 

Chiesi invece alle insegnanti così che si acclimatassero. A tale scopo introdussi con giudizio il tema dell’inevitabile transizione ecologica prima di chiedere se magari in vita avessero già assistito al risveglio dei morti. Ma non feci in tempo a cominciare il discorso importante, che: 

 

“Ah no, su quello no. Non mi piego”

Rispose combattiva una di loro iniziando a descrivere le varie teorie secondo cui un pensiero fosse valido e l’altro meno.

Io che speravo di aiutarle, le esposi invece al pericolo di un attacco cardiaco.

 

Tra un:

 

“Proprio non capisco, anche tu...”

 

E l'altra:

 

“Guarda mi sa...”

 

“Ti chiamerò meno”

 

Litigarono simili a perdi tempo in un bar.

 

“Il Ministero ha detto!”

 

Tuonai allora per chiudere il teatrino visto che da sole non lo avrebbero mai finito. Con simile gente andavano bene le maniere forti.

 

“Rispettabili insegnanti, inutile nascondere che siate una scuola pioniera”

 

Un fiato venuto dal Ministero era per loro un soffio divino portatore del bene comune.

Al sentire che l’editto venisse dal Cardinale Ministro Ospletonio, sorrisero maliziose. Era pure un bell’uomo, così il pensiero di compiere le sue direttive le fece sentire appagate. Avrebbero quindi concesso alla morte di giocare con i bambini se le avessero menzionate nella circolare n. 16.748; deciso e confermato.

 

“Non rilascerete interviste”

 

“Si raccomanda” aggiunsi.

 

“Ospletonio vi saluta, bizzarre maestre”

Quel “bizzare” le fece sentire capite, le rese complici.

Che i morti tornassero pure! Le impiegate erano inermi.

 

“Una forte nebbia”

 

Avrebbe testimoniato chiunque, se qualcun altro ci fosse stato.

Il cielo per via della sera ormai prossima a calare si tinse d’un blu oscuro prima che una spessa foschia impallidisse ogni colore. Romana nel frattempo correva per acciuffare la maglia gialla del fratellastro che scappava con in mano una tartina.

 

“Ah ah ah ah. Non mi prendi”

 

Rideva lui.

 

“Maestra, c’è una torta”

 

E si girarono tutte.

 

“Intendevo Romana, care insegnanti”

 

“Una torta per me?”

 

“Sì, una torta fatta da loro”

 

“Da loro chi?”

 

“Adesso capirai”

 

Erano solo due passi, ma con la nebbia poco si vedeva.

Una piccola sagoma cioccolatosa dopotutto, appoggiata sul tavolino non lontano dai cipressi, compariva discreta. Era strutturata su tre piani, glassata marrone profondo, che nel verde nebbioso del serale battito acquisiva importanza.

 

Con su scritto: “Auguri”

 

“Ma che carino sei stato”

 

A quel punto, almeno perché non mi considerasse un pazzo, avrebbe dovuto capire.

Fu giusto, a tal fine, attendere la porzionatura della prima fetta, poiché mentre era un faticoso dire per noi quanto poco ci scuotesse una farcia marrone, ancora marrone, nell’autunnale nebbia di un cimitero, lo stesso non valeva per loro. 

La fragranza antica risvegliò infatti nasi associati ad anni durante i quali certi ingredienti erano stati all'ultimo grido.

Destato chiunque, il cimitero si accese. Parve in un attimo che fosse agosto con le aiuole fiorite.

 

“Saranno i Biodisel”

 

Accennai titubante sperando che non si accorgessero di come l’aria sembrasse densa e molliccia, simile ad ammassati corpi di meduse vaganti, privati di consistenza e profumo. Una questione estetica neppure intravvista, fraintendibile per un vaneggio dovuto al cambio climatico.

Tuttavia, i morti si erano svegliati, e i bambini capendolo, alzarono le mani al cielo affatto spaventati, e anzi, contenti.

Un generale, un panettiere, un gran giullare e uno strozzino danzavano sgargianti, vestiti come allora, contenti e arzilli di essere fuori e non pensare ai problemi un istante. 

Che splendore, com’ero contento.

Romana guadagnò così un gruppo di amici, i saggi morti, mentre il sottoscritto intese come portare magie nel mondo. Subito quindi, stilai un elenco di confederati, i quali, amando le scappatelle in giro per la zona, avrebbero aiutato la cara ragazza in cambio di passeggiate. 

All’occorrenza, durante un esame universitario ad esempio, passò il Cartografo e le guidò uno schizzo.

La volta successiva un grande scultore levigò invece i bassorilievi dov'era presente la risposta.

Divenne in breve tempo un caso studiato. Rispondeva bene perché si applicava, ma oltre a ciò presentava lavori di una cura estetica ritenuta impossibile.

Consegnò infatti un teorema affrescato in un paesaggio di tardo settecento, poi presentò una dissertazione in ebraico e incorniciò una tesina ricamandola su un arazzo. 

Forse stavamo esagerando, eppure, mi sembrava di far bene alla gente.

Presentavamo un po' di trovate che l'uomo non sapeva più realizzare e il mondo rideva, si portava le mani ai capelli senza più fiato. 

Per il test a crocette consegnò una statua di Minerva indicante, grazie alle dita alzate, come le risposte esatte fossero tutte alla tre, e aveva ragione.

Mi scrisse allora la cancelleria Papale per via di certi collegamenti con preti e funerali riguardo una diceria.

Era vero che ci fosse una fanciulla padrona di arti scomparse?

Finissima in affreschi, luminosa al pianoforte? Un prodigio vero e proprio intendevano.

 

“Pensa che si tratti di un miracolo?”

 

“No"

 

Risposi.

 

"Forse è Lei. Non ho mai osservato un simile atteggiamento neppure in chi vide il Signore”

 

Sfuggita la frase ritenni d’aver a quel punto esagerato.

Tuttavia, risultava complesso indietreggiare dopo un insulto a pubblica decenza; equiparare la propria amata alla Sacra Vergine costava un prezzo.

In ogni caso lo esclamai, e come ero solito ripetere da un po', si credeva al falso più volentieri.

Mi esaminarono così interdetti i dipendenti giunti a verificare. Erano scettici, come se non potessi conoscere io certe cose.

Respirai invece tranquillo, anche perché immediatamente si accorsero delle magnifiche colonne d’oro, dell’obelisco e delle piume.

All’entrata si ergeva uno sproposito, chissà che nel mezzo non ci fosse Sua Maestà.

Ci addentrammo quindi nel cimitero mentre la cara ragazza giocava con la nebbia discorrendo persino.

“Oh, espressivo liturgo, lei è stato un benefattore di questa città, come la ringrazio”

 

“Sacerdote, riguardo alla firma contraffatta e alle prove del 1.312, farò un esposto, cosa vuole...”

 

Era fonte di grane la giovane smarrita. Parlando coi morti avrebbe distrutto l’unità, generato screzi, svelato segreti.

 

“Forniamole un titolo se desideriamo che venga ignorata. Chi stima un ecclesiastico oggi giorno?”

 

“Chi crede a una ragazza con le apparizioni?”

 

E girarono i tacchi, gli insolenti, come se lei fosse un pericolo da gestire e non un miracolo da scrutare.

23

Dio forse l’aveva scelta, per questo risultava tanto saggia.

Del resto, mi pareva uno sbaglio che fossero partiti, visto che decisione loro fu di arrivare.  

Saranno pur stati mandati con un obiettivo, se n’erano dimenticati?

Comunque, al seguente esame universitario si presentò sul Bucintoro e durante lo scritto intonò la Bhoém.  

Tornò il vescovo e dichiarò:

 

“Un errore, un errore degli emissari precedenti; scusate”

 

Parevano a quel punto convinti di aver trovato un "che" nella fanciulla, il cosa specifico tuttavia non fu chiarito.

Preoccupato per l'infittirsi delle visite, scrissi il consueto articolo informando i vivi e i morti sul repentino svilupparsi dei fatti. Un successo tanto enorme avevamo raggiunto da suscitare interesse: consideravano Romana un prodigio di santità.

 

“Non possiamo far nulla”

 

Risposero gli ex pasticcieri risorti, nonché le missive giunte da ogni categoria di lettore.

Per darle una gioia avevo mostrato quanto valesse, esagerando forse a quel punto.

Il tempo tuttavia correva, e le idee crescevano.

A causa di ciò, trovai un giorno due periti e uno scultore al Campo Santo; veniva loro chiesto di documentare un fatto.

Temendo ormai d’aver perso, durante un ultimo tentativo, cercai di confondere i presenti sperando che in quel modo terminassero i giochi. Azionai l’idrante facendoli allontanare dal prato, scambiando nel frattempo il marmo poggiato su mobili rotelle con la giovane in posa.

 

Come tornò lo scultore una volta terminata l'artificiale pioggia, prese il gessetto con cui stava segnando il masso e la guardò sorpreso.

 

“Ho già finito, pare un miracolo”

 

Io volevo solo che riconoscessero la sua grazia, che terminasse la questione della santità, che stesse bene e che ci muovessimo oltre.

Vedendola così, ritenevo, per forza avrebbero compreso: non vi era nulla di sacro, solo bellezza pulita.

Maledette idee! Perché invece, allora, cominciarono a ritenerla addirittura una statua, e non vollero sentir ragioni quando assicurai che il marmo fosse rimasto, che stessero rapendo una fanciulla.

Venne scambiata per un monumento e fu posta su un altare.

 

Io sempre più mi stupivo del mondo.

 

Come facevano a non capire che fosse viva? Sì, era bianca, era graziosa, ma da lì a considerarla un'opera...

Cosa potevo fare? La potenza del credo era immensa.

M’inchinavo dunque.

 

“Nessuno si accorge che lei viva? Come potrebbe esistere simile statua? Ditelo, se no liberatela!”

 

“Taccia, lei è fuori di senno!”

 

“Gentili calibratori di compassi... Mi sorride, è lei, io... Vi prego, fidatevi”

Le stavo dinnanzi ma nessuno ascoltava. Si agitava, eppure nulla. Risultava immacolata, uno stabile incanto secondo loro. 

 

“Guardate, guardate. Miracolo!" 

 

Gridò allora il sagrestano sorpreso, indicandomi. 

 

“Quest’uomo sanguina”

 

“Per cortesia, no”

 

Pronunciai sconsolato alzando la mano gocciolante passata sul cuore. 

“Perché ci condanniamo? Io non volevo, lo sai”

 

Aggiunsi mentre il prodigio di sangue sembrò una vendetta da lei improvvisata contro ciò che avevo ordito.

Non capiva che ogni cosa fosse stata fatta per lei, nel tentativo di rasserenarla?

 

“Mangia bene, dona magie. Ciao"

Borbottai straziato mentre portavano via trascinato il mio corpo. 

24

“Cosa le avete fatto?"

Domandai severo. 

 

“Ce lo dica lei, e non scherzi ulteriormente”

Intimò l'ecclesiastico persuaso che fossi stato io ad averla sottratta.  

"Non posso saperlo! Con voi partì" 

Risposi. Anche se immediatamente capii dal suo sguardo inflessibile e basito che "la meraviglia" era stata perduta sul serio.

"Io, nascosta?"

"Il barcaiolo ha parlato chiaramente: tentato omicidio. Lo gettò in acqua rubandogli il trasportatore"

 

L'indifferenza per essere amati troppo o la paura di non esserlo abbastanza, era quello a controllare i ricordi.

 

Era svanita ogni rimembranza circa il luogo ove la portai. Che io la nascosi non potrei dirlo, ma sembravano certi.

"Uff! I capricci dei grandi registi, arriva il finale e stupiscono tutti. Persino i ricordi tagliano se lo ritengono giusto"

Pensai affranto. 

Così, da allora, in una statua nessuno sa quale, non v’è marmo ma puro splendore, il quale solo emanando bagliori, incanta.

 

Chissà in quale cantina, soffitta o teca finì la giovane compagna.

 

Infine, se la fortuna vi baciasse a tal punto, ma forse chiedo troppo. Se vi dovesse capitare... se vedeste per caso un profilo marmoreo tanto sorprendente da ricordarvi la cara fanciulla, per favore, inchinatevi e dite:

 

“Buongiorno Maestra, il prode giornalista ci ha fatto sapere di lei. Grazie per le storie, grazie! Valgono più di molto altro; ci animano”

 

Senza portare il libro, mi raccomando.

Così, solo per sferzarle il cuore, farla trasalire pensando:

 

“Veramente ebbe successo? E come? Solo così il nostro amore durerà?”

 

Lasciate insomma che immagini la storia più bella: finché ignoti al cospetto di un’opera dimenticata s’inchineranno certi nel dubbio, il nostro incontro non avrà fine.

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